Rottura della cuffia dei rotatori

Rottura della cuffia dei rotatori

 

La cuffia dei rotatori è il complesso dei quattro muscoli (con i rispettivi tendini) che concorre al movimento dell’articolazione della spalla nei vari piani dello spazio e che tiene stabile l’articolazione fra la scapola e l’omero (l’osso che appartiene alla parte superiore del braccio).

 

Che cos’è la rottura della cuffia dei rotatori?

La “lesione” della cuffia dei rotatori è la rottura parziale o completa di uno (o più) fra i tendini che la costituiscono.

È una condizione molto comune soprattutto nel paziente anziano. La rottura può essere sia parziale che completa e genera sia dolore che limitazioni funzionali.

 

Quali sono le cause della rottura della cuffia dei rotatori?

La rottura della cuffia dei rotatori può avvenire sia per un evento traumatico, come risultato di un movimento errato, di un eccessivo carico o di un impatto, sia per via degenerativa, più lentamente, a causa di continui stress dell’articolazione o come frutto della degenerazione indotta dall’invecchiamento.

Più frequentemente è un insieme di questi due elementi che portano alla rottura tendinea: a causa di fenomeni degenerativi inizia un fenomeno di “assottigliamento” del tendine che può poi evolvere sia spontaneamente che in seguito a traumi o sforzi anche banali in una rottura completa.

 

Quali sono i sintomi della rottura della cuffia dei rotatori?

La rottura della cuffia dei rotatori è solitamente caratterizzata da dolore nella parte anteriore della spalla, specialmente se la causa della rottura è di natura traumatica. Il paziente prova dolore specialmente quando compie movimenti come alzare il gomito sopra la spalla o appoggiarlo a una superficie come il bracciolo di una poltrona o la superficie di un tavolo o di una scrivania.

Quando la rottura deriva invece da una condizione cronica, il dolore si manifesta con intensità variabile nel tempo ed è spesso presente nelle ore notturne. È inoltre spesso accompagnato da una maggiore difficoltà nel compiere movimenti, che hanno un raggio più limitato, e dall’impossibilità di sollevare pesi anche modesti.

 

Quali sono i fattori di rischio per la rottura della cuffia dei rotatori?

Nei casi di rottura tendinea traumatica vanno considerati fattori di rischio tutte le attività sia sportive che lavorative che hanno una alta incidenza di traumatismi a carico della spalla (rugby, calcio, sci, motocross ecc).

Nel caso di lesioni degenerative esistono fattori di rischio legati all’età, a patologie metaboliche (come il diabete), ad abitudini di vita (come il fumo) per cui si genera una diminuzione della vascolarizzazione del tendine che quindi si indebolisce e che lo predispone alla rottura.

La rottura può tuttavia derivare anche dallo svolgimento di un lavoro che sollecita l’articolazione in modo continuo o da una predisposizione personale, dovuta alla naturale conformazione dell’articolazione.

 

Come si previene la rottura della cuffia dei rotatori?

Non è possibile prevenire la lacerazione della cuffia dei rotatori ma è facile diminuire le possibilità di una lacerazione traumatica o da degenerazione attraverso i seguenti accorgimenti:

-esercitare regolarmente la spalla per mantenere flessibilità e forza della muscolatura.

-fare attenzione agli sforzi che riguardano l’articolazione fra spalla e omero.

-riposo quando l’articolazione duole o è infiammata.

-non esitare a sottoporsi a un controllo specialistico in caso di persistenza della sintomatologia.

 

Diagnosi

La rottura della cuffia dei rotatori si diagnostica solitamente attraverso l’esame fisico, seguito per conferma da una risonanza magnetica.

La radiografia, invece, sebbene non evidenzi la rottura, può essere utilizzata per rendere visibili eventuali alterazioni a carico delle componenti scheletriche.

 

Trattamenti

Spesso l’opzione chirurgica non è la prima scelta per il trattamento della rottura della cuffia dei rotatori in quanto è possibile avere un beneficio della sintomatologia anche con trattamenti riabilitativi.

L’approccio chirurgico viene spesso considerato come prima opzione solo in casi di rottura totale in pazienti giovani, quando c’è il rischio che possa portare ad un’alterazione nella conformazione dell’articolazione stessa.

 

Terapia non chirurgica

L’approccio non chirurgico consiste in diversi fasi indirizzate alla riduzione della sintomatologia.

Può essere benefico un periodo di riposo eliminando fattori di stress per la spalla (sia sportivi che lavorativi) coadiuvati da una terapia farmacologica mirata a ridurre sia il dolore che l’infiammazione derivante dalla rottura tendinea.

A ciò si può aggiungere un programma riabilitativo basato su terapie fisiche e fisioterapia per ridurre la componente infiammatoria e cercare di ottenere un recupero funzionale.

A seconda dei risultati della terapia fisica e degli esiti dei controlli successivi, lo specialista può decidere se continuare con la terapia non chirurgica od optare per un intervento di tipo chirurgico.

 

Terapia chirurgica

Quando vi sia l’indicazione per un approccio di tipo chirurgico, per via dell’esito negativo delle terapie non chirurgiche (solitamente non valutabile prima di 8-12 settimane) o per altri fattori, lo specialista può decidere di operare.

L’approccio artroscopico è in questo caso quello più utilizzato: in regime di day surgery, in anestesia loco reginale e attraverso 3 piccoli “buchini” attraverso la pelle si procede alla visualizzazione diretta della lesione e alla sua riparazione.

La chirurgia si è dimostrata efficace nella terapia per la rottura della cuffia dei rotatori, sebbene possa accadere che la patologia si ripresenti con ricorrenza nell’arco della vita del medesimo individuo. In casi molto severi è possibile infine procedere alla sostituzione di una parte o dell’intera articolazione della spalla con una protesi.

Dopo la terapia chirurgica, qualsiasi sia l’approccio adottato, è necessaria una procedura di riabilitazione, divisa solitamente in tre fasi:

Prima fase: immobilizzazione del braccio per circa 4 settimane, per permettere al tessuto muscolare di ripararsi.

Seconda fase: fisioterapia assistita, per recuperare il movimento dell’articolazione (circa 4-8 settimane).

Terza fase: rinforzo della muscolatura attraverso l’esercizio fisico assistito e non (circa 8 settimane).

 

Slogatura

Slogatura

 

Questo infortunio è anche detto lussazione, tuttavia il termine “slogatura” risulta comunemente molto più utilizzato. Consiste in uno spostamento permanente dei campi articolari gli uni rispetto agli altri.

Che cos’è la slogatura?

La slogatura è una lesione articolare che può interessare tutte le articolazioni. Quelle più frequentemente interessate sono la spalla e le dita, seguite da gomito, ginocchia e fianchi.

 

Quali sono le cause della slogatura?

Le slogature sono in genere causate da traumi. In particolare si può incorrere in una slogatura nel caso di:

-incidenti:  se si cade dalla moto, dalla bicicletta o in caso di incidenti automobilistici, ma anche se si inciampa o si cade mentre si corre o si cammina

-pratica di attività sportiva. In questo caso le slogature sono piuttosto frequenti. Possono essere determinate da cadute di vario tipo (soprattutto sport come pallavolo, sci, ginnastica) o dal contatto fisico (soprattutto sport come calcio, rugby e pallacanestro)

 

Quali sono i sintomi della slogatura?

Una slogatura è generalmente accompagnata dalla seguente sintomatologia:

-si avverte dolore intenso nella zona dell’infortunio

-l’articolazione può risultare deformata

-l’articolazione appare gonfia e calda

 

Come prevenire la slogatura?

Per prevenire le slogature è bene:

-fare sport in modo sicuro, indossando il giusto equipaggiamento protettivo soprattutto nel caso degli sport da contatto

-evitare il ripetersi della slogatura: dopo essersi slogata, l’articolazione risulta generalmente maggiormente suscettibile a slogature future. Per evitare il ripetersi dell’infortunio e potenziare l’articolazione è bene svolgere gli esercizi consigliati dal fisiatra o dal fisioterapista

Tendinite

Tendinite

 

La tendinite consiste nell’infiammazione di un tendine ossia della struttura che collega le ossa ai muscoli e permette il movimento delle articolazioni.

 

Che cos’è la tendinite?

La tendinite può avere un’insorgenza acuta o progressiva. È caratterizzata da dolore e tumefazione locale e difficoltà alla mobilizzazione dell’articolazione coinvolta. Nel caso in cui vi sia un’alterazione della normale struttura collagenica del tendine, nelle forme croniche recidivanti o dopo assunzione di alcuni farmaci tenotossici (per esempio alcuni antibiotici o dopo ripetute infiltrazioni con corticosteroide) si può avere la rottura del tendine. In questo caso necessita di intervento chirurgico per essere risolto. Le tendiniti possono essere associate alla presenza di calcificazioni. Sebbene la tendinite possa colpire i tendini di qualsiasi articolazione, quelle più comunemente colpite sono:

-spalle (tendinite della cuffia dei rotatori, ecc).

-gomiti (epicondilite o gomito del tennista, ecc).

-mani/polsi (dito a scatto, ecc).

-anche (trocanteriti, ecc).

-ginocchia (tendinite del quadricipite o jumper knee, ecc).

-caviglie (tendinite d’Achille, fasciti plantari ecc).

 

Quali sono le cause della tendinite?

Le cause delle tendinite sono soprattutto di ordine meccanico. Nelle forme acute è frequente l’origine traumatica, soprattutto in ambito sportivo. Nelle forme croniche, invece, la causa è data più spesso da un movimento ripetuto e continuativo.

Esiste inoltre una maggiore predisposizione in soggetti affetti da patologie metaboliche, quali il diabete o le tireopatie. In tal caso l’alterato metabolismo dei tessuti sembra indurre una maggiore debolezza della loro struttura e una difficoltà ad attivare i normali processi di riparazione.

Analogamente, fattori quali il sovrappeso e l’obesità sono fattori predisponenti e, purtroppo, sfavorevoli per una risoluzione ottimale della patologia.

 

Quali sono i sintomi della tendinite?

La tendinite si presenta nella maggior parte dei casi come un dolore acuto che insorge rapidamente. Nell’arco di qualche giorno la fase iniziale di infiammazione spesso decorre senza sintomi particolarmente rilevanti. In altri casi il dolore viene sentito come un dolore “a freddo”, cioè nel momento in cui si inizia a usare una articolazione, per poi diminuire con il suo utilizzo. In quest’ultimo caso però spesso evolve in un dolore che, progressivamente, compare anche al movimento. A volte si può notare tumefazione del tendine infiammato (per esempio nel tendine di Achille) oppure delle formazioni cistiche (per esempio nelle tendiniti del polso). Occasionalmente si può associare calore al tatto e raramente arrossamento della cute sovrastante.

 

Quali sono i fattori di rischio per la tendinite?

Possono essere considerati fattori di rischio per la tendinite:

-lavori manuali ripetitivi o effettuati in posizioni scomode e innaturali, indipendentemente dai carichi (pesi) coinvolti.

-attività sportiva con carichi eccessivi o scorretti, assenza di tempi di recupero adeguati, tecnica sportiva errata, mancato periodo di riscaldamento o stretching a fine attività.

-età, sovrappeso e patologie metaboliche, in cui si assiste a una progressiva modificazione della struttura tendinea.

 

Come prevenire la tendinite?

Per ridurre la possibilità di incorrere in una tendinite si possono mettere in atto una serie di precauzioni:

  • Durante l’attività sportiva è fondamentale importante un corretto riscaldamento iniziale e la correttezza del gesto atletico. Una volta terminata l’attività è necessario fare dello stretching. Bisogna inoltre tener conto che vi sono dei tempi di recupero che variano molto in base all’età e alla presenza di patologie di base.
  • Durante l’attività lavorativa risulta invece utile fare attenzione alle cattive posture o al non mantenere la stessa posizione troppo a lungo.

Uno stile di vita sano, con controllo del peso e attività fisica leggera, è da considerarsi fondamentale.

 

Diagnosi

La tendinite si diagnostica attraverso l’esame clinico del paziente, associato a esami strumentali quali l’ecografia, che risulta l’esame da fare sempre in prima battuta. In casi particolari può essere consigliato il ricorso  alla risonanza magnetica nucleare.

 

Trattamenti

In prima battuta la tendinite si cura con riposo (eventuale scarico), ghiaccio locale e analgesici. L’utilizzo dei FANS (Farmaci Antinfiammatori Non Steroidei) è attualmente argomento di discussione. Se tale approccio non fosse sufficiente si può procedere con terapie fisiche locali come laser e ultrasuoni, oppure terapie più innovative quali le onde d’urto focali che uniscono all’effetto antiinfiammatorio quello rigenerativo dei tessuti. Spesso risulta fondamentale il trattamento fisiokinesiterapico a complemento delle terapie citate. Le infiltrazioni con cortisonico sono indicate solo in casi di dolore estremamente intenso con impossibilità ad utilizzare l’articolazione coinvolta, tenendo sempre conto del potenziale effetto negativo che i corticosteroidi hanno sul tendine.

Nelle lesioni tendinee il trattamento è esclusivamente chirurgico.

Tendinite del piede

Tendinite del piede

 

La tendinite è una delle cause più comuni di dolore al piede e alla caviglia. Nello specifico si tratta di  un’infiammazione che colpisce il tendine, una struttura forte e resistente fatta di tessuto fibroso e simile a una corda. Serve ad ancorare saldamente il muscolo all’osso e permette il movimento dell’articolazione.

 

Che cos’è la tendinite del piede?

Le tendiniti del piede sono infiammazioni molto comuni, in aumento negli ultimi anni soprattutto per una maggiore frequenza della pratica sportiva fin dalla giovane età e per l’uso di calzature spesso inappropriate suggerite dalla moda.

I tipi più comuni di tendiniti sono:

-tendinopatia achillea: il tendine calcaneare o tendine d’Achille è il tendine che collega i muscoli del polpaccio alla parte posteriore del tallone. È il tendine più largo e forte del corpo. L’infiammazione è un evento frequente durante la corsa e non a caso si parla di tendinite del podista

-tendinite del tibiale posteriore: si tratta di una tendinite solitamente associata con il piede piatto. Il tendine del muscolo tibiale posteriore si inserisce tra la parte interna della caviglia e il collo del piede

-tendinite dei tendini dei flessori: si manifesta con dolore nella parte posteriore della caviglia sul lato dell’alluce. Questa tendinite è tipica dei ballerini per via della posizione in equilibrio sulle punte richiesta dall’attività

-tendinite dei tendini estensori delle dita: colpisce la parte superiore del piede ed è solitamente causata dallo sfregamento del piede contro la scarpa o da condizioni infiammatorie come l’artrite reumatoide

 

Quali sono le cause della tendinite al piede?

Le cause della tendinite ai piedi possono possono essere diverse:

-infortuni

-traumi

-usura

-movimenti ripetitivi durante lo sport

-calzature inappropriate

-sfregamento contro speroni ossei

-malattie metaboliche

La causa più frequente delle tendinite è un sovraccarico funzionale del tendine sottoposto a un’attività eccessiva come avviene nella corsa o in altre attività sportive.

Altre cause sono:

-Infortunio al piede o alla caviglia a causa di  un movimento brusco come saltare o atterrare sul suolo da un punto alto

-una struttura del piede anomala. Problematiche come i piedi piatti o il piede cavo possono creare squilibri muscolari che influenzano la stabilità di uno o più tendini

-patologie sistemiche come l’artrite reumatoide, la gotta o le spondiloartropatie

 

Quali sono i sintomi della tendinite al piede?

I sintomi di una tendinite includono dolore e talvolta gonfiore nell’area soggetta a infiammazione. I sintomi possono manifestarsi a riposo e più di frequente durante il movimento. Altri sintomi sono la debolezza e il dolore quando si appoggia o si ruota il piede e quando si cammina.

 

Come prevenire la tendinite del piede?

La prevenzione delle tendiniti si ottiene limitando sforzi ripetitivi e usuranti, ricordandosi di effettuare esercizi di stretching dolce prima dell’attività sportiva, scegliendo con cura calzature adatte e sottoponendosi a controlli ortopedici per identificare eventuali anomalie del piede.

Tenosinovite stenosante (dito a scatto)

Tenosinovite stenosante (dito a scatto)

 

La tenosinovite stenosante, comunemente nota come dito a scatto, interessa le pulegge e i tendini della mano, indispensabili per la flessione delle dita.

I tendini funzionano come delle lunghe funi e connettono i muscoli dell’avambraccio alle ossa delle dita. Nelle dita le pulegge formano dei tunnel fibrosi entro cui scorrono i tendini, facilitati dalla presenza delle relative guaine. Le pulegge trattengono i tendini vicino alle ossa con lo scopo di ottenere il movimento di flessione delle dita.

La tenosinovite stenosante si presenta quando nella guaina tendinea si sviluppa una zona di rigonfiamento. Ogni volta che attraversa la puleggia vicina al rigonfiamento il tendine viene schiacciato con conseguente dolore e una sensazione di scatto nel dito corrispondente. Quando il tendine scatta produce ulteriore infiammazione e gonfiore. Si crea così un circolo vizioso che sostiene l’infiammazione, il gonfiore e lo scatto del dito. Talvolta il dito si blocca in flessione e diventa difficile e molto doloroso raddrizzarlo.

 

Quali sono le cause della tenosinovite stenosante?

Le cause di questo processo infiammatorio non sono sempre chiare. Può essere dovuto a microtraumi ai tendini flessori o a un sovraccarico funzionale, ma giocano anche un ruolo importante patologie come artrite reumatoide, diabete e gotta.

 

Quali sono i sintomi della tenosinovite stenosante?

Il dito a scatto si manifesta inizialmente con indolenzimento alla base del dito, dove può essere rilevato un piccolo nodulo.

 

Trattamento

L’obiettivo del trattamento è eliminare lo scatto o il blocco del dito e ripristinarne il normale movimento. Il gonfiore intorno al tendine flessore e alla sua guaina devono essere ridotti per consentire un migliore scorrimento nella puleggia. La somministrazione di antinfiammatori e l’applicazione di tutori possono essere indicati per diminuire l’infiammazione del tendine. Il trattamento può anche includere il cambiamento delle attività manuali.

Qualora questi trattamenti non dovessero essere sufficienti a migliorare i sintomi, al paziente può essere suggerito un intervento in day hospital. Lo scopo della chirurgia è di aprire la prima puleggia in modo che il tendine possa scorrere liberamente. Il movimento attivo del dito generalmente inizia subito dopo l’intervento e l’uso normale della mano può essere raggiunto in breve tempo.

Ecocardiografia (ecocardiogramma)

Ecocardiografia (ecocardiogramma)

 

L’ecocardiografia è una metodica con cui si studiano il cuore e il flusso del sangue attraverso le valvole per mezzo degli ultrasuoni. A differenza delle radiazioni utilizzate in radiologia, gli ultrasuoni sono innocui, per cui non è necessaria alcuna precauzione e l’esame può essere eseguito su qualunque paziente innumerevoli volte (anche nelle donne in gravidanza).

 

A che cosa serve l’ecocardiografia?

L’ecocardiografia permette di ottenere informazioni sulla contrattilità del cuore, sulla morfologia delle sue valvole e sul flusso del sangue nelle sue cavità, sia a riposo che dopo l’esercizio fisico o l’assunzione di un farmaco.

Esistono varie modalità di esecuzione:

-l’ecocardiografia transtoracica,

-l’ecocardiografia transesofagea (per via endoscopica),

-l’ecocardiografia 3D (tridimensionale).

 

Come funziona l’ecocardiografia?

Il paziente deve stendersi a petto nudo sul lettino dell’ecografista, che gli posizionerà degli elettrodi sul petto. In seguito l’ecografista spalmerà un apposito gel sul petto del paziente e sul trasduttore, una sonda che, appoggiata sul torace, emette gli ultrasuoni che, riflessi e rielaborati dall’apparecchiatura, permettono di visualizzare il cuore e le sue strutture. La sonda verrà spostata sul petto con una leggera pressione. Al paziente potrebbe essere chiesto di rimanere immobile o di respirare profondamente. Al termine dell’esame gli elettrodi saranno rimossi e non resterà che pulirsi dal gel rimasto sul petto. La durata complessiva dell’esame è di circa 10-15 minuti.

 

Chi può effettuare l’ecocardiografia?

Non esistono particolari controindicazioni all’ecocardiografia: chiunque può sottoporsi all’esame.

 

Quali sono le norme di preparazione?

A seconda della tipologia di esame possono essere necessarie o meno norme di preparazione:

-per informazioni sull’ecocardiografia transtoracica.

-per informazioni sull’ecocardiogramma transesofageo.

-per informazioni sull’ecocardiografia 3D.

 

L’ecocardiografia è pericolosa o dolorosa?

L’ecocardiografia né dolorosa, né pericolosa.

Ecocardiografia (ecocardiogramma) 3D

Ecocardiografia (ecocardiogramma) 3D

 

L’ecocardiografia è una metodica con cui si studiano il cuore e il flusso del sangue attraverso le valvole per mezzo degli ultrasuoni. A differenza delle radiazioni utilizzate in radiologia, gli ultrasuoni sono innocui, per cui non è necessaria alcuna precauzione e l’esame può essere eseguito su qualunque paziente innumerevoli volte (anche nelle donne in gravidanza).

 

A che cosa serve l’ecocardiografia 3D?

L’ecocardiografia 3D consente di effettuare una migliore valutazione d’insieme del cuore, particolarmente utile nel caso delle malattie valvolari (soprattutto della valvola mitrale) e dei difetti interatriali.

Come funziona l’ecocardiografia 3D?

Il paziente deve stendersi a petto nudo sul lettino dell’ecografista, che gli posizionerà degli elettrodi sul petto. In seguito l’ecografista spalmerà un apposito gel sul petto del paziente e sul trasduttore, una sonda che, appoggiata sul torace, emette gli ultrasuoni che, riflessi e rielaborati dall’apparecchiatura permettono di visualizzare il cuore e le sue strutture. La sonda verrà spostata sul petto con una leggera pressione. Al paziente potrebbe essere chiesto di rimanere immobile o di respirare profondamente. Al termine dell’esame gli elettrodi saranno rimossi e non resterà che pulirsi dal gel rimasto sul petto. La durata complessiva dell’esame è di circa 10-15 minuti.

 

Chi può effettuare l’ecocardiografia 3D?

Non esistono particolari controindicazioni all’ecocardiografia: chiunque può sottoporsi all’esame.

 

Sono presenti norme di preparazione?

L’ecocardiografia 3D non richiede nessuna preparazione.

 

L’ecocardiografia 3D è pericolosa o dolorosa?

L’ecocardiografia non è né dolorosa né pericolosa.

Ecocardiografia transesofagea per via endoscopica

Ecocardiografia transesofagea per via endoscopica

 

L’ecocardiografia è una metodica con cui si studiano il cuore e il flusso del sangue attraverso le valvole per mezzo degli ultrasuoni. A differenza delle radiazioni utilizzate in radiologia, gli ultrasuoni sono innocui, per cui non è necessaria alcuna precauzione e l’esame può essere eseguito su qualunque paziente innumerevoli volte (anche nelle donne in gravidanza).

 

A che cosa serve l’ecocardiografia transesofagea per via endoscopica?

L’ecocardiografia permette di ottenere informazioni sulla contrattilità del cuore, sulla morfologia delle sue valvole e sul flusso del sangue nelle sue cavità, sia a riposo che dopo l’esercizio fisico o l’assunzione di un farmaco.

L’ecocardiografia transesofagea rappresenta un esame di secondo livello, indicato generalmente nel caso in cui l’ecocardiogramma transtoracico sia ritenuto insufficiente o non interpretabile rispetto al quesito clinico; in alcuni casi può essere direttamente prescritto come test d’elezione: presenza di patologie difficilmente diagnosticabili, come rare malformazioni congenite, malattie dell’aorta toracica o difetti complessi delle valvole cardiache.

Come funziona l’ecocardiografia transesofagea per via endoscopica?

Il paziente deve stendersi a petto nudo sul lettino dell’ecografista, che gli posizionerà degli elettrodi sul petto. In seguito l’ecografista spalmerà un apposito gel sul petto del paziente e sul trasduttore, una sonda che, appoggiata sul torace, emette gli ultrasuoni che, riflessi e rielaborati dall’apparecchiatura, permettono di visualizzare il cuore e le sue strutture. La sonda verrà spostata sul petto con una leggera pressione. Al paziente potrebbe essere chiesto di rimanere immobile o di respirare profondamente. Al termine dell’esame gli elettrodi saranno rimossi e non resterà che pulirsi dal gel rimasto sul petto. Il paziente deve togliere eventuali occhiali e protesi, stendersi sul fianco e posizionarsi con busto e collo leggermente flessi versi le gambe. In seguito dovrà deglutire una sonda simile a quella usata per la gastroscopia, inserita attraverso un boccaglio posto tra i denti. La durata complessiva dell’esame è di circa 10-15 minuti.

Chi può effettuare l’ecocardiografia transesofagea per via endoscopica?

Non esistono particolari controindicazioni all’ecocardiografia: chiunque può sottoporsi all’esame.

 

Sono previste norme di preparazione?

Per eseguire l’ecocardiogramma transesofageo è necessario essere a digiuno dalla mezzanotte precedente il giorno dell’esame. Le medicine possono essere assunte cercando di bere solo la minima quantità sufficiente per deglutire i farmaci. In caso di diabete è importante consultarsi con il proprio medico per definire la dose adeguata di insulina che dovrà essere ovviamente ridotta per il digiuno.

 

L’ecocardiografia transesofagea per via endoscopica è dolorosa o pericolosa?

L’ecocardiografia transesofagea non è dolorosa né pericolosa, ma il passaggio della sonda attraverso la bocca potrebbe generare un certo fastidio. Per tale motivo, per migliorare la tolleranza alla manovra, il medico o il personale infermieristico effettuano una anestesia locale (spruzzando uno spray in gola), alla quale possono associare, nei pazienti più sensibili, un blanda sedazione per via endovenosa. In questo caso, potendo essere ridotto lo stato di vigilanza, dopo l’esame non sarà possibile guidare o svolgere attività che richiedano un’attenzione particolare per almeno 5-6 ore.

Ecocardiografia transtoracica

Ecocardiografia transtoracica

 

L’ecocardiografia (o ecocardiogramma) è una metodica che studia il cuore e il flusso del sangue attraverso le valvole per mezzo degli ultrasuoni. A differenza delle radiazioni utilizzate in radiologia,gli ultrasuoni sono innocui, per cui non è necessaria alcuna precauzione e l’esame può essere eseguito su qualunque paziente innumerevoli volte (anche nelle donne in gravidanza).

 

A cosa serve l’ecocardiografia transtoracica?

L’ecocardiografia transtoracica permette di fornire informazioni dettagliate sulle dimensioni e sulle funzione del cuore e degli apparati valvolari.

 

Come funziona l’ecocardiografia transtoracica?

Il paziente deve stendersi a petto nudo sul lettino dell’ecografista, che gli posizionerà degli elettrodi sul petto. In seguito l’ecografista spalmerà un apposito gel sul petto del paziente e sul trasduttore, una sonda che, appoggiata sul torace, emette gli ultrasuoni che, riflessi e rielaborati dall’apparecchiatura, permettono di visualizzare il cuore e le sue strutture. La sonda verrà spostata sul petto con una leggera pressione. Al paziente potrebbe essere chiesto di rimanere immobile o di respirare profondamente. Al termine dell’esame gli elettrodi saranno rimossi e non resterà che pulirsi dal gel rimasto sul petto. La durata complessiva dell’esame è di circa 10-15 minuti.

 

Chi può effettuare l’ecocardiografia transtoracica?

Non esistono particolari controindicazioni all’ecocardiografia: chiunque può sottoporsi all’esame.

 

Sono previste norme di preparazione?

L’ecocardiografia transtoracica non richiede nessuna preparazione.

 

L’ecocardiografia transtoracica è un esame doloroso o pericoloso?

L’ecocardiografia transtoracica non è né invasiva, né dolorosa e permette di riprendere la normale routine subito dopo l’esame. Anche quando previsto l’uso di agenti di contrasto, si tratta di sostanze non ionizzanti innocue per la salute.

Test cardiopolmonare

Test cardiopolmonare

 

Definizione

Il test cardiopolmonare è il completamento del normale test da sforzo, cioè il cosiddetto elettrocardiogramma da sforzo. Consente di ottenere un quadro complessivo della condizione fisiologica del paziente. Il test cardiopolmonare supera il tradizionale test da sforzo poiché, mentre per mezzo di quest’ultimo si può verificare il comportamento elettrocardiografico sotto sforzo del paziente, col test cardiopolmonare si può valutare anche l’aspetto metabolico. Il test cardiopolmonare si utilizza da alcuni anni, ma solo recentemente è diventato un esame di routine. Oggi un buon ospedale dotato di dipartimento cardiologico non può prescindere dall’averlo. Il tipo di apparecchiatura che viene utilizzato per eseguire il test da sforzo cardiopolmonare consente di misurare la ventilazione, il consumo di ossigeno e la produzione di anidride carbonica durante lo svolgimento dell’esercizio. In questo modo, con i parametri misurati si può avere un quadro complessivo dello stato fisiologico del paziente.

 

Come si esegue

L’attrezzatura consiste in un ergometro, un elettrocardiografo dotato delle 12 derivazioni standard, un pneumotacografo (che serve a misurare la ventilazione polmonare) abbinato ad un analizzatore di gas (ossigeno e anidride carbonica), il tutto gestito da un software. Il paziente viene collegato a questa apparecchiatura per mezzo di un boccaglio dotato di rilevatore del respiro. Questo strumento trasmette, analizzando respiro per respiro, l’andamento del consumo di ossigeno e la produzione dell’anidride carbonica. L’apparecchiatura consente di costruire un grafico formato da una serie di curve che illustrano il metabolismo della persona.

 

Per chi è indicato?

Questo test viene principalmente utilizzato nei casi di pazienti cardiopatici e/o broncopneumopatici. In particolare è indirizzato a tre tipologie di pazienti:

-cardiopatici ischemici per i quali è necessario verificare la riserva coronarica. Per esempio pazienti operati di by-pass coronarico, per i quali la valutazione del test serve a controllare l’eventuale presenza di ischemia da sforzo residua.

-cardiopatici e/o bronchitici cronici che stanno svolgendo un programma riabilitativo.

-pazienti con scompenso cronico cardiaco più o meno grave. Infatti, attualmente è considerato un test fondamentale nella valutazione del paziente cardiopatico da candidare al trapianto cardiaco.

Alle persone affette da patologie respiratorie, per esempio chi soffre di enfisema o di bronchite cronica, questo esame può fornire indicazioni importanti sulla gravità della malattia, sulla sua evoluzione e valutare l’eventuale approccio terapeutico-riabilitativo.

 

Duplice valutazione

Si può definire un test di valutazione funzionale completo proprio perché riesce a tracciare un profilo fisiologico completo di un soggetto sotto sforzo valutando sia l’aspetto cardiaco sia respiratorio che metabolico.

La verifica della soglia anaerobica è molto importante nell’ambito della valutazione cardiologica. Permette un adeguato controllo sull’attività fisica svolta dal cardiopatico in corso di un programma di riabilitazione. Questo grazie a parametri precisi utilizzati per impostare e monitorare il “training cardiovascolare” in sicurezza e con la certezza di ottenere un buon recupero. Infatti lavorando entro i limiti di questa soglia si ottengono effetti benefici, mentre oltre tale livello di guardia (ossia in condizioni di anaerobiosi) non si ha l’effetto allenante ricercato e si rischiano complicanze.

Soglia aerobica e anaerobica

Per mezzo di questo test si valuta la condizione di partenza e con i vari parametri ottenuti si pongono gli obiettivi che lo sportivo poi svilupperà con il suo allenatore. In particolare è importante per misurare la soglia anaerobica e programmare un allenamento in grado di elevarne il livello in modo da utilizzare il proprio “motore” a un regime di giri più alto senza andare incontro alla formazione di acido lattico in eccesso nei muscoli rispetto alla loro capacità di smaltimento, evitando in tal modo un repentino e indesiderato senso di fatica.

Per atleti e sportivi

Nell’ambito sportivo questo test serve per valutare prevalentemente persone sane, ma anche atleti o sportivi con precedenti di malattie cardiovascolari di entità molto lieve per le quali si può ipotizzare un ritorno all’attività sportiva, cercando di dare al soggetto la possibilità di recuperare le proprie capacità al 100%. Inoltre è particolarmente consigliato alle persone di mezza età che vogliono capire qual è il loro limite e quali sono i margini di miglioramento dal punto di vista cardio-respiratorio; in particolare per chi pratica sport aerobici, cioè ciclismo, mezzo fondo, maratona, sci di fondo ecc…

Per migliorare il proprio allenamento

Anche per le persone che da anni si allenano 2/3 volte a settimana può essere utile eseguire il test cardiopolmonare. Infatti, se non si hanno a disposizione certi parametri (come quelli determinati da un test cardiopolmonare) non si può sapere se correndo a una determinata frequenza cardiaca quel tipo di allenamento è utile, oppure se è troppo vicino alla soglia anaerobica o se addirittura l’ha già superata. Così si rischia di sottoporsi ad un tipo di esercizio che invece di essere produttivo è controproducente. Con la valutazione cardiopolmonare si può indicare qual è lo stato attuale della condizione fisica della persona in modo da garantirle la possibilità di un allenamento ottimale e produttivo. Per è consigliato a persone dai 35/40 anni in su che eseguono sport con un certo impegno.

In caso di iscrizione in palestra è in genere richiesto un normale certificato medico oppure una certificazione specialistica medico-sportiva fondata su una valutazione con elettrocardiogramma registrato dopo uno sforzo, perciò non paragonabile ad un test da sforzo massimale.

Nello sport professionistico le società sportive sottopongono i loro atleti (ad esempio ciclisti, podisti, calciatori…) a valutazioni periodiche obbligatorie tra cui è previsto anche il test da sforzo cardiopolmonare. Si ritiene che ciò sia auspicabile ed utile anche ai dilettanti ed ai cosiddetti amatori che si sottopongono a carichi di allenamento talvolta molto impegnativi.

 

 

Visita cardiochirurgica

Visita cardiochirurgica

 

La visita cardiochirurgica è un passaggio fondamentale per la preparazione del paziente cui è stato già diagnosticato un problema cardiaco e circolatorio per la cui soluzione è necessario un intervento chirurgico, per la pianificazione dei tempi e delle modalità dell’intervento. La consulenza cardiochirurgica (di controllo) è utile al monitoraggio delle fasi successive all’intervento.

 

A cosa serve la visita cardiochirurgica?

La visita Cardiochirurgica consente di acquisire informazioni e predisporre trattamenti specifici per il paziente candidato a interventi chirurgici al cuore per malattie coronariche:

-esecuzione di by-pass coronarici per la cura della cardiopatia ischemia

-terapia delle cardiopatie congenite a livello atriale e dei tumori che interessano il cuore

-riparazione o sostituzione delle valvole cardiache (chirurgia valvolare o chirurgia della valvulopatie)

-terapia degli aneurismi dell’aorta toracica

-trattamento su ventricoli per la risoluzione di difetti cardiaci congeniti o acquisiti

-trattamento chirurgico della fibrillazione atriale e dello scompenso cardiaco

-impianto di pacemaker e altri strumenti impiantabili per il controllo delle disfunzioni cardiache

-monitorare i pazienti portatori di device o di protesi.

 

Come si svolge la visita cardiochirurgica?

Il paziente viene accolto da un team specializzato che raccoglie il maggior numero di informazioni possibili sulla storia e sullo stile di vita dell’assistito: alimentazione, vizio del fumo, livello di attività fisica e di sedentarietà, eventuali patologie in corso, interventi precedenti, casi in famiglia di patologie cardiache, assunzione di farmaci.

Successivamente vengono prescritti tutti i test di laboratorio necessari per i pazienti che necessitano di approfondimenti diagnostici prima dell’intervento: esami del sangue, esami radiologici, esami cardiologici.

Lo staff sanitario provvede poi ad acquisire tutti i dati e parametri clinici per stabilire il profilo del paziente candidato all’intervento chirurgico, per pianificare e definire la tipologia di intervento più adatto alla patologia, alla disfunzione cardiaca diagnosticata, alle condizioni e all’età del paziente, per procedere ad una valutazione del rischio tromboembolico ed emorragico del paziente in modo da eseguire l’intervento in sicurezza.

 

Sono previste norme di preparazione?

Non sono previste norme di preparazione, il paziente è invitato a portare con sé eventuali esami effettuati su richiesta del proprio medico curante e un promemoria in cui sono indicati tutti i farmaci che sta assumendo.

Visita ortopedica a mano o polso

Visita ortopedica a mano o polso

 

La visita ortopedica della mano o del polso è una visita specialistica condotta da un medico ortopedico che permette di identificare problemi a carico delle ossa, dei muscoli, dei nervi o dei tendini presenti nella mano e nel polso.

 

 

A cosa serve la visita ortopedica della mano o del polso?

 

La visita ortopedica della mano o del polso serve a diagnosticare i problemi alla base di disturbi come dolori, irrigidimenti e intorpidimenti.

Fra le problematiche che possono essere identificate sono incluse la degenerazione di ossa, articolazioni, muscoli o tendini, deformità di origine reumatica o artrosica, compressione di nervi (ad esempio la sindrome del tunnel carpale), infiammazioni, tumori e conseguenze di traumi (anche di origine sportiva).

 

 

Come si svolge la visita ortopedica della mano o del polso?

 

Durante la visita ortopedica della mano o del polso il medico si informa sulla storia personale e clinica del paziente (età, lavoro, attività fisica, traumi e patologie pregresse) e sui sintomi con cui ha a che fare.

All’anamnesi segue l’esame obiettivo, che può prevedere la palpazione manuale e l’esecuzione di test per verificare le capacità di movimento. Se disponibili, saranno esaminate anche radiografie o i referti di altri esami diagnostici condotti in precedenza.

Al termine della visita, che ha una durata tipica di 15-30 minuti, il medico può prescrivere ulteriori accertamenti (ad esempio ecografie, elettromiografie, Tac, risonanze magnetiche) o trattamenti specifici, a volte chirurgici.

 

Sono previste norme di preparazione?

 

La visita ortopedica della mano o del polso non richiede alcuna preparazione. Il paziente è però invitato a portare con sé i referti di eventuali indagini strumentali condotte in precedenza (ad esempio recenti radiografie del polso).

Visita ortopedica al ginocchio

Visita ortopedica al ginocchio

 

La visita ortopedica del ginocchio è una visita specialistica condotta da un medico ortopedico sull’articolazione del ginocchio.

 

 

A cosa serve la visita ortopedica del ginocchio?

 

Questa visita specialistica permette di identificare o quantomeno ipotizzare le cause di dolori, rigidità, blocchi, instabilità e difficoltà a camminare associate al ginocchio.

Fra le patologie che possono portare nell’ambulatorio di un ortopedico per una visita del ginocchio sono incluse l’artrosi, il ginocchio varo o il ginocchio valgo, disturbi alla rotula, lesioni del menisco o dei legamenti crociati, la borsite della zampa d’oca e la sindrome della Benderella ileotibiale.

Al termine della visita il medico potrebbe prescrivere indagini diagnostiche di approfondimento, come tac, ecografie o risonanze magnetiche.

 

 

Come si svolge la visita ortopedica del ginocchio?

 

Durante la visita al ginocchio il medico si informerà sullo stile di vita del paziente (ad esempio sul tipo di lavoro e di sport svolti), sulla sua storia clinica e sui sintomi di cui soffre. In seguito valuterà l’aspetto generale del ginocchio in posizione eretta e la sua morfologia, per poi proseguire con una palpazione. Infine verrà valutata la mobilità dell’articolazione. La visita è in genere estesa anche ai muscoli vicini al ginocchio.

 

 

Sono previste norme di preparazione?

 

La visita ortopedica del ginocchio non prevede una preparazione specifica. Il paziente deve però portare con sé eventuali referti di analisi, ad esempio radiografie, condotte nel passato recente.

Visita ortopedica al gomito

Visita ortopedica al gomito

 

Si tratta di una visita medica condotta da uno specialista in ortopedia in cui l’attenzione viene concentrata sul gomito. I motivi più frequenti che rendono necessaria questa visita sono dolori o irrigidimenti causati da sollecitazioni eccessive dell’articolazione del gomito durante il lavoro o lo sport o da patologie come l’artrosi.

 

 

A cosa serve la visita ortopedica al gomito?

 

Una visita ortopedica al gomito permette di identificare le cause dei problemi del paziente a livello di questa articolazione o quantomeno di elaborare un’ipotesi diagnostica da approfondire con accertamenti successivi eventualmente prescritti dallo stesso medico ortopedico al termine della visita.

Le problematiche che possono essere individuate nel corso della visita includono fratture, lussazioni, artropatie, borsiti, compressioni dei nervi, rotture dei tendini, anchilosi, epicondilite ed epitrocleite.

 

 

Come si svolge la visita ortopedica al gomito?

 

Per prima cosa il medico procederà alla raccolta dei dati del paziente (età, lavoro, attività fisica, storia clinica e sintomi passati). In questo modo sarà più facile elaborare una diagnosi completa.

Seguirà un esame obiettivo che può includere la valutazione manuale dell’articolazione, test come la flessione passiva del polso (test di Mills), l’estensione attiva contrastata del polso (test di Cotzen) e la valutazione della sensibilità del gomito alla palpazione.

Al termine della visita potrebbero essere prescritte indagini strumentali come radiografia, Tac o risonanza magnetica.

 

Sono previste norme di preparazione?

 

La visita ortopedica al gomito non richiede alcuna preparazione. Il paziente è semplicemente invitato a portare con sé eventuali referti di analisi condotte in precedenza (ad esempio radiografie recenti).

Visita ortopedica alla spalla

Visita ortopedica alla spalla

 

La visita ortopedica alla spalla è un elemento fondamentale nel percorso verso l’identificazione delle cause dei problemi a carico di questa struttura. Nella maggior parte dei casi chi si rivolge a un ortopedico per una visita alla spalla lo fa a causa di un dolore che localizza in questa parte dello scheletro.

 

A cosa serve la visita ortopedica alla spalla?

 

La visita ortopedica alla spalla serve per confermare che il dolore percepito dal paziente è realmente legato a questa specifica articolazione. Attraverso la visita specialistica è inoltre possibile ipotizzare le cause alla base di questi sintomi (ad esempio un trauma o una malattia).

 

Come si svolge la visita ortopedica alla spalla?

 

Durante una visita alla spalla l’ortopedico raccoglie i dati  sulla storia personale e clinica del paziente, in modo da poter formulare una diagnosi sulla base della sua età, del suo lavoro, delle attività sportive praticate, di eventuali traumi di cui è stato vittima e del tipo di disturbo con cui ha a che fare.

L’anamnesi è completata da un esame obiettivo basato su test funzionali. Quelli tradizionalmente impiegati sono il test per il conflitto, il test per la cuffia dei rotatori, il test per il capo lungo del bicipite, il test per il labbro glenoideo e il test per l’instabilità.

La visita potrebbe concludersi con la prescrizione di esami strumentali che permettono di confermare, completare o approfondire la diagnosi.

 

Sono previste norme di preparazione?

 

Al paziente non è richiesta alla preparazione per questa tipologia di visita se non quella di portare con sé esami ed analisi effettuati in passato soprattutto se radiologici.

Visita ortopedica all’anca

Visita ortopedica all’anca

 

Ai pazienti che presentano dolori all’anca, rigidità o zoppia è generalmente suggerita una visita specialistica con un ortopedico.

La visita specialistica è una tappa fondamentale per la diagnosi di patologie congenite (cioè presenti sin dalla nascita) o acquisite (ossia conseguenti a traumi, a malattie o al naturale processo di invecchiamento) che colpiscono l’articolazione dell’anca.

 

A cosa serve la visita ortopedica dell’anca?

 

La visita ortopedica dell’anca serve a identificare la causa alla base del dolore, della rigidità o delle difficoltà a deambulare lamentati dal paziente. Attraverso un’accurata visita specialistica ed, eventualmente, la prescrizione di indagini diagnostiche più approfondite l’ortopedico potrà elaborare un’ipotesi sull’origine del disturbo. Alcune tra le patologie a carico dell’anca diagnosticabili sono: la displasia dell’anca, l’anca a scatto, l’artrosi, l’impingement femoro-acetabolare, la lesione del labbro acetabolare, la necrosi avascolare cefalica e la trocanterite.

Altre volte la visita ortopedica è necessaria per un controllo periodico in caso di artrosi o di un’altra patologia. In questo caso ovviamente lo scopo è adattare la terapia alle nuove condizioni dell’articolazione o verificare la possibilità di  procedere con un intervento chirurgico.

 

Come si svolge la visita ortopedica dell’anca?

 

L’ortopedico procederà all’anamnesi raccogliendo informazioni sullo stato di salute del paziente (incluse le caratteristiche dei sintomi per cui gli è stata prescritta la visita), sulla sua storia clinica (ad esempio su traumi precedenti all’anca) e sulla sua storia personale (età, lavoro e attività sportive praticate). Segue un esame obiettivo durante il quale il medico visita l’anca, valutando il dolore, le possibilità di movimento e la forza muscolare. Se disponibili, l’ortopedico analizzerà anche i referti di radiografie o di altre analisi condotte sull’articolazione.

Al termine della visita possono essere prescritte indagini diagnostiche come radiografie, Tac o risonanza magnetica per approfondire l’analisi della problematica alla base dei sintomi rilevati.

 

Sono previste norme di preparazione?

 

La visita ortopedica dell’anca non prevede alcuna preparazione specifica, ma il paziente deve portare con sé i referti di eventuali indagini strumentali prescritte dall’ortopedico al termine della visita precedente o condotte in passato (ad esempio recenti radiografie).

Ginnastica propriocettiva

Ginnastica propriocettiva

Nei casi più gravi di distorsione alla caviglia, il recupero progressivo della flessione e dell’estensione iniziano prima di appoggiare il piede a terra, per evitare rigidità e per riguadagnare elasticità a livello di muscoli e tendini. L’appoggio con peso progressivo del piede a terra è la seconda tappa riabilitativa. Di solito è attuata dal paziente autonomamente e nella fase finale prevede l’uso delle stampelle solo per salire e scendere le scale, in quanto questa attività è ancora difficile da eseguire con scioltezza.

Un ruolo che potremmo definire di rifinitura a tutto il processo riabilitativo è affidato alla cosiddetta ginnastica propriocettiva. Poco conosciuta e considerata, questa tipologia di ginnastica può essere l’elemento di distinzione tra una caviglia che funziona discretamente o bene per attività di vita quotidiana e una caviglia che torna a sopportare le sollecitazioni sportive senza dolore. La ginnastica propriocettiva è utilizzata recuperare quella che potremmo chiamare sensibilità articolare, cioè quella capacità di rispondere adeguatamente agli stimoli variabili che provengono sia dal terreno sia dall’attività sportiva in carico (cambi di direzione, arresti improvvisi, salti, contrasti con gli avversari). Viene eseguita con tavolette dette “tipo surf”, costruite sia per essere utilizzate con entrambi i piedi (bipodaliche), sia con un piede solo (monopodaliche). Su queste tavolette, che sono instabili o basculanti, va ricercato ed allenato l’equilibrio della caviglia; si deve iniziare da seduti prima di lasciare le stampelle e quindi proseguire in piedi quando viene concesso il carico. Le prime volte è consigliabile avere l’assistenza di un fisioterapista.

Mappatura dei nei

Mappatura dei nei

 

Definizione

La mappatura dei nei consiste nell’acquisire in computer sia le immagini macroscopiche dei nei sia quelle demoscopiche di essi. Le immagini demoscopiche si acquisiscono con una apposita telecamera dotata di lente che si appoggia su ogni neo per cogliere immagini non visibili a occhio nudo.

 

A cosa serve la mappatura dei nei?

La mappatura dei nei serve per poter capire se uno o più nei nel tempo cambiano aspetto e diventano pericolosi, in modo da asportarli e prevenire quindi la loro degenerazione in melanoma.

 

Come funziona la mappatura dei nei?

Il paziente viene fatto spogliare e sdraiare sul lettino. Il dermatologo provvederà a effettuare tramite l’utilizzo del dermatoscopio un esame dei nei presenti sulla pelle, provvedendo alla loro mappatura. L’esame verrà poi ripetuto sull’altro lato del corpo. Le foto cliniche e demoscopiche dei nevi vengono numerate e quindi archiviate per poterle confrontare con le immagini nei mesi o anni successivi in modo da poter notare segni di modificazioni non riconoscibili a occhio nudo.

 

Chi può effettuare l’esame?

Chiunque può sottoporsi a questo esame.

 

Sono necessarie norme di preparazione?

Per sottoporsi alla mappa dei nei occorre non essere abbronzati.

 

La mappatura dei nei è dolorosa o pericolosa?

Questo esame diagnostico risulta del tutto indolore e non invasivo, non è minimamente pericoloso e non presenta alcuna controindicazione.

Aborto spontaneo

Aborto spontaneo

 

Il termine medico “aborto spontaneo” sta ad indicare un’interruzione di gravidanza che avviene spontaneamente entro i primi 180 giorni di gravidanza ed è un evento abbastanza comune: le statistiche evidenziano infatti che l’aborto spontaneo succede nel 30% delle gravidanze.

 

Che cos’è l’aborto spontaneo?

L’aborto spontaneo può essere “completo” e dunque consistere nell’espulsione spontanea totale dell’embrione o feto senza vita, o “incompleto” o “ritenuto” ossia quando la gravidanza è parzialmente o completamente presente nella cavità uterina, ma non è presente nessuna attività cardiaca del feto.

 

Quali sono le cause dell’aborto spontaneo?

Le cause che possono portare le donne in gravidanza ad un aborto spontaneo sono tante, tra le principali vi sono:

  • anomalie cromosomiche (è sicuramente la causa più frequente di abortività spontanea. La frequenza aumenta con l’aumentare dell’età materna);
  • malformazioni congenite (utero setto, unicorne ecc) o acquisite (polipi, fibromi) dell’utero;
  • incontinenza cervicale (il collo uterino tende a dilatarsi in epoca molto precoce di gravidanza, anche in assenza di contrazioni, conducendo all’espulsione del feto);
  • malattie autoimmuni o trombofiliche (in cui aumenti , cioè, la coagulazione del sangue);
  • patologie infettive come toxoplasmosi, rosolia, infezione da citomegalovirus che possono contagiare il feto e causarne la sofferenze e poi la morte;
  • infezioni vaginali non trattate;
  • insufficienza del corpo luteo che non produce abbastanza progesterone, l’ormone che favorisce l’impianto e il mantenimento della gravidanza nel primo trimestre.

 

Quali sono i sintomi dell’aborto spontaneo?

A volte possono capitare anche i cosiddetti aborti silenti, manifestazioni che nonostante la diagnosi è clinica fatta con l’ecografia, non hanno comunque presentato alcuna tipologia sintomatica. Altre casistiche hanno evidenziato invece perdite ematiche o contrazioni uterine. I sintomi con cui si può presentare un aborto spontaneo possono essere molto diversi tra loro e variabili in rapporto alle diverse situazioni cliniche.

 

Come prevenire un aborto spontaneo?

Le azioni di prevenzione dell’aborto spontaneo sono anche molto diverse e variano in base alla causa all’origine dell’aborto.

Il riposo è senza dubbio il principale deterrente e il trattamento fondamentale consigliato dal medico quando la gestante è un soggetto a rischio di minaccia d’aborto. – Una terapia preventiva a base di progesterone può essere efficace nei casi in cui si sospetti una insufficienza del corpo luteo. In caso di patologie autoimmuni (come la sindrome da antifosfolipidi) o in condizioni di eccessiva trombofilia, possono essere prescritti l’utilizzo di eparina o di acido acetil-salicilico. Quando i soggetti soffrono di incompetenza cervicale si esegue il cerchiaggio della cervice. È bene provvedere al trattamento di patologie come il diabete o a carico della tiroide già prima dell’inizio di una gravidanza.

 

Diagnosi

In linea di massima la diagnosi di aborto spontaneo viene fatta a seguito di:

  • visita ginecologica;

Possono essere prescritti anche:

  • test di gravidanza;
  • dosaggio plasmatico della frazione beta dell’ormone della gravidanza (HCG). L’HCG viene prodotto a partire dall’impianto in utero e aumenta costantemente fino al terzo mese di gravidanza. Le sue modificazioni sono utili per capire l’evolutività o meno di una gravidanza.

 

Trattamenti

Diagnosticato un aborto spontaneo, le strade possibili sono generalmente due:

1) la terapia chirurgica: è il cosiddetto “raschiamento” mediante isterosuzione. In pratica, si procede all’aspirazione del materiale abortivo ritenuto in cavità uterina, mediante una cannula inserita attraverso il canale cervicale.

2) in alcuni casi si può decidere di attendere la spontanea espulsione del materiale abortivo dall’utero o facilitarne l’espulsione stessa tramite la somministrazione di farmaci che facilitino la contrazione uterina. Si parla in questo caso di “condotta di attesa”, che viene applicata quasi esclusivamente in presenza di aborto incompleto (più raramente nel caso degli aborti interni), e soprattutto se l’aborto è avvenuto nelle settimane iniziali di gravidanza.

Amenorrea

Amenorrea

 

L’amenorrea è l’assenza di ciclo mestruale e viene generalmente suddivisa in:

  • Primaria: se la donna non ha mai avuto il ciclo mestruale, al compimento del sedicesimo anno di età
  • Secondaria: quando il ciclo mestruale, prima presente in modo più o meno regolare, si interrompe.

 

Che cos’è l’amenorrea?

I soggetti maggiormente a rischio sono tutte quelle donne che hanno problemi di alimentazione e soffrono di disturbi che le portano ad avere un indice di massa corporea troppo basso o troppo elevato e le atlete sottoposte a rigorosi programmi di allenamento. In questi casi si è in presenza di una vera e propria assenza di ovulazione che non permette dunque di portare a termine il concepimento e le donne che ne sono affette riscontrano seri problemi a rimanere incinte. L’amenorrea di lunga data, associata a bassi livelli estrogenici, conduce dunque a maggiori rischi di osteoporosi.

 

Quali sono le cause dell’amenorrea?

A volte l’amenorrea è una situazione normale nella vita di una donna, come durante il periodo di gestazione, l’allattamento, la menopausa e, in alcuni casi, a causa dell’assunzione di contraccettivi. In altri casi l’assenza di mestruazioni può essere causata da alcuni farmaci (ad esempio antipsicotici, chemioterapici, antidepressivi o antipertensivi), dallo stress, dal fatto di essere sottopeso, dall’eccessivo esercizio fisico o da squilibri ormonali (sindrome dell’ovaio policistico, iper e ipotiroidismo, tumori benigni dell’ipofisi, menopausa precoce). L’amenorrea può anche essere causata dalla presenza di aderenze nella cavità uterina (per esempio dopo raschiamenti ripetuti). L’amenorrea primaria è generalmente dovuta ad anomalie congenite dell’apparato riproduttore (utero, ovaie, vagina) o ad alterazioni della mappa cromosomica (come avviene per esempio nella sindrome di Turner).

 

Quali sono i sintomi dell’amenorrea?

In linea di massima è possibile affermare che il maggiore sintomo dell’amenorrea è l’assenza delle mestruazioni, fenomeno a cui si aggiunge in base alle casistiche altre problematiche sintomatiche quali acne, cute e capelli grassi, ipertricosi (aumento della peluria sul corpo, tipicamente sul viso), galattorrea (ossia fuoriuscita di liquido simile al latte dai capezzoli), caduta dei capelli, sterilità.

 

Come prevenire l’amenorrea?

Frequentemente l”amenorrea è dovuta a stili di vita poco salutari. È importante quindi avere un rapporto equilibrato con il cibo, che permette di mantenere una massa corporea idonea al corretto funzionamento degli ormoni coinvolti nel ciclo mestruale. Inoltre in molti hanno notato che anche la riduzione dello stress e un giusto equilibrio tra impegni lavorativi e momenti di riposo aiuta a prevenire i disturbi del ciclo mestruale.

 

Diagnosi

Un’accurata raccolta anamnestica, l’iter diagnostico dell’amenorrea che prevede la visita ginecologica abbinata all’ecografia trans vaginale e/o trans addominale, consentirà al medico ginecologico di valutare con una visione appropriata e completa l’apparato riproduttore, prendendo così in esame il funzionamento delle ovaie e dell’utero ed escludere cause malformative o genetiche.

Successivamente possono essere prescritti altri esami, fra cui:

  • test di gravidanza eseguito sulle urine o sul sangue (bhcg);
  • prelievo ematico in cui vengono valutati i livelli di alcuni ormoni di origine femminile o maschile (FSH – LH – PROLATTINA – TSH – ESTRADIOLO – PROGESTERONE – ORMONE ANTIMULLERIANO – TESTOSTERONE – CORTISOLO ecc);
  • isteroscopia (esame endoscopico che indaga la presenza di patologie a carico della cavità uterina);
  • In casi selezionati: risonanza magnetica della pelvi, laparoscopia.

 

Trattamenti

Il trattamento dell’amenorrea non è mai univoco e varia a seconda delle cause della problematica stessa.

Spesso, ci si limita all’osservazione e all’attesa di cicli mestruali spontanei, oppure (se la paziente non cerca figli) alla prescrizione della pillola contraccettiva

 

Nelle pazienti affette da squilibri dell’alimentazione, si agisce prevalentemente sul recupero o perdita del peso corporeo

Nei casi di amenorree anovulatorie in pazienti desiderose di prole, si stimola l’ovulazione con farmaci specifici, monitorando la crescita follicolare con ecografie seriate.

 

Se sussistono problemi a carico dell’ipofisi (per esempio nella eccessiva produzione di prolattina) o della tiroide verranno prescritti farmaci specifici.

Se il problema nasce da una patologia malformativa potrebbe essere necessario intervenire chirurgicamente.

Candida

Candida

 

Che cos’è la candida?

L’infezione da Candida sta ad indicare in linea di massima la candidosi candidiasi, ossia l’infezione causata dalla Candida albicans, il fungo che si trova nelle mucose genitali. La Candida abita comunemente nella vagina, ma può mutare in patogena e causare conseguentemente irritazione anche grave alle mucose.

Le statistiche rivelano che i 2/3 circa delle donne in età fertile almeno una volta nella vita ne sono state affette. La candida albicans si trova anche nel cavo orale, in questo caso può causare un’infezione fastidiosa denominata mughetto.

 

Quali sono le cause della candida?

La candida albicans è naturalmente presente nel corpo umano e in una situazione normale non è fattore scatenanti di alcun fastidio. In determinate circostanze però può proliferare e manifestarsi con sintomi fastidiosi. Questo avviene, per esempio, dopo una terapia antibiotica, o anche nei soggetti immunodepressi, nelle donne diabetiche, in gravidanza o talvolta nelle donne che utilizzano i contraccettivi orali.

 

Quali sono i sintomi della candida?

Le infezioni da candida possono verificarsi sia in soggetti donne sia gli uomini.

Nelle donne i sintomi consistono per lo più in arrossamento delle mucose genitali, perdite bianche “tipo ricotta” e prurito; possono inoltre esserci dolore durante i rapporti sessuali e bruciore alla minzione, in quanto l’urina percorre i tratti di mucosa infiammata.

Gli uomini hanno invece un’eruzione cutanea con arrossamento al glande che talvolta può coinvolgere anche l’area del prepuzio, con conseguente bruciore. Tuttavia numerosi soggetti hanno anche lamentato episodi di perdite biancastre e materiale caseoso intorno al prepuzio, frequentemente le casistiche hanno evidenziato che i sintomi appaiono a seguito di rapporti sessuali.

 

Come prevenire la candida?

La Candidiasi non è necessariamente legata ai rapporti sessuali, anche se la trasmissione avviene per via sessuale e proprio per questo motivo il preservativo è un utile alleato nella prevenzione alla candida. Nella prevenzione della candidosi gioca un ruolo importante anche una corretta igiene intima, usando detergenti acidi. È consigliabile inoltre preferire biancheria di cotone ed evitare indumenti troppo stretti.

Molti medici consigliano anche l’assunzione di lattobacili (fermenti lattici) per via vaginale e/o orale ogni volta che si deve effettuare una terapia antibiotica.

 

Diagnosi

La candidosi può essere diagnosticata attraverso la storia clinica e l’esame obiettivo, oppure effettuando uno striscio vaginale nelle donne o un tampone uretrale negli uomini.

 

Trattamenti

La candida si cura con trattamenti antifungini, la terapia potrebbe prevedere sia farmaci per bocca, sia per uso locale (creme, ovuli o lavande).

È necessario trattare entrambi i partner sessuali, al fine di evitare il cosiddetto effetto “ping-pong”, ossia il passaggio dell’infezione dal partner non trattato all’altro.

Il trattamento può essere efficace nel bloccare l’infezione, impedendo al fungo di proliferare, ma non può eliminarlo dall’organismo; sono pertanto possibili recidive in futuro.