Sindrome del QT Lungo (LQTS)

Sindrome del QT Lungo (LQTS)

 

È una cardiopatia provocata da un difetto del battito cardiaco, difetto del processo di ripolarizzazione ventricolare (fase successiva alla contrazione ventricolare) che in questi pazienti avviene in un tempo più lungo rispetto alla norma. Questa fase del battito è indicata come intervallo QT e risulta allungata in modo patologico nei pazienti affetti da LQTS. Questa anomalia elettrica del battito cardiaco si presenta con una grande disomogeneità elettrica della ripolarizzazione ventricolare, il miocardio ventricolare diventa altamente vulnerabile; l’extrasistole che insorge in tale periodo può innescare un’aritmia rapidissima, sincopale e spesso fatale.

Le aritmie ventricolari da LQTS, come per esempio torsioni di punta o tachicardie ventricolari, si presentano con una perdita di coscienza (sincopi). Le anomalie della ripolarizzazione ventricolare sono originate da alterazioni di alcune proteine responsabili del trasporto degli ioni potassio e sodio mediante la membrana delle cellule cardiache, funzione fondamentale per il mantenimento della normale attività elettrica del cuore. I difetti di questi canali possono avere un carattere genetico (nelle forme ereditarie della sindrome), ma possono anche essere provocati dall’azione di alcuni farmaci come antiaritmici, antimicotici ecc.

Fra le LQTS genetiche si possono distinguere forme simili tra loro ma secondarie ad alterazioni in geni diversi. Sono stati identificati diversi geni, le cui mutazioni causano LQTS: ad esempio gene KCNQ1 o KvLQT1 cromosoma 11 che genera LQT1, gene KCNH2 o HERG cromosoma 7 che genera LQT2 ecc. Solitamente la sindrome del QT lungo viene trasmessa con modalità autosomica dominante.

Diagnostica

Elettrocardiogramma a 12 derivazioni

Trattamenti

Terapia con farmaci betabloccanti o con farmaci a base di potassio

Impianto del defibrillatore

Miocardite

Miocardite

 

La miocardite è un’infiammazione del muscolo cardiaco solitamente correlata a infezioni virali, batteriche o fungine (o micotiche). In alcuni casi si può avere una guarigione completa dalla malattia, senza postumi per il cuore. In altre situazioni, il superamento della fase di massima intensità può essere seguito da un danno permanente con compromissione della funzione cardiaca e conseguente scompenso cardiocircolatorio cronico.

Che cos’è la miocardite?

Quando il cuore viene colpito da un’infezione l’agente infettivo danneggia o distrugge le cellule muscolari delle sue pareti; nel stesso tempo le cellule del sistema immunitario che hanno la funzione di combatterla possono, a loro volta, provocare danni al muscolo cardiaco, contribuendo in modo rilevante al quadro globale. In questa rara circostanza le pareti del cuore diventano più spesse e deboli, generando i sintomi tipici di uno scompenso cardiaco. La prognosi dipende dalla causa alla base dell’infezione e dallo stato di salute generale di chi ne è colpito: in alcuni casi si può guarire completamente, mentre in altri lo scompenso può diventare cronico. Altre possibili complicazioni comprendono lo sviluppo di cardiomiopatie e l’estensione dell’infiammazione al pericardio con conseguente pericardite.

Da cosa può essere causata la miocardite?

Gli agenti infettivi che più spesso provocano la miocardite sono i virus (Coxsackie, Citomegalovirus, virus dell’epatite C, Herpes, HIV o Parvovirus), alcuni batteri (Clamidia, Micoplasma, Streptococco o Treponema) e alcuni funghi (Aspergillus, Candida, Coccidioidi, Criptococco o Histoplasma). Ci sono altre possibili cause, come reazioni allergiche a farmaci o sostanze tossiche (alcol, cocaina, metalli pesanti e catecolammine), oppure malattie autoimmuni o genericamente infiammatorie (artrite reumatoide, LES o sarcoidosi).

Con quali sintomi si manifesta la miocardite?

In alcuni casi la miocardite risulta essere asintomatica; in altri si manifestano sintomi simili a quelli dell’influenza. Tra i sintomi di interesse cardiologico che vengono di solito segnalati sono inclusi: palpitazioni (motivate da aritmie, che possono essere anche maligne), dolori al petto, affaticamento e mancanza di respiro; i pazienti possono segnalare anche svenimenti, riduzione della quantità di urine e comparsa di gonfiori agli arti inferiori, con caratteristiche di gravità via via maggiori secondo il livello di compromissione della funzione del cuore. È possibile che questi sintomi coesistano con altri più generali di tipo infettivo/infiammatorio come febbre, mal di testa, dolori muscolari, dolori articolari.

Come si può prevenire la miocardite?

Non esistono vere misure per prevenire una miocardite che può anche risultare come prima e unica manifestazione di una infezione virale o di una malattia autoimmune. È sempre opportuno effettuare il trattamento tempestivo di un’infezione batterica o fungina, per prevenire il coinvolgimento del cuore e quindi la comparsa di miocardite.

Diagnosi

Per effettuare una diagnosi di miocardite potrebbero essere prescritti:

esami del sangue, inclusi le emocolture e altri esami infettivologici

RX del torace

ECG

ecocardiogramma

cateterismo cardiaco con biopsia endomiocardica

​Trattamenti

Il trattamento più adatto in caso di miocardite dipende dalla causa scatenante e può includere:

l’assunzione di antibiotici

l’assunzione di antinfiammatori

Nel caso in cui la compromissione cardiaca fosse molto rilevante è necessario ricoverare il paziente in ambiente ospedaliero e somministrare la terapia dello scompenso cardiaco. Nelle forme più gravi sono obbligatori la degenza in terapia intensiva e i trattamenti farmacologici e meccanici del caso (inclusi il posizionamento di un pace-maker temporaneo o definitivo e l’impiego di un defibrillatore).

 

Scompenso cardiaco

Scompenso cardiaco

 

Lo scompenso cardiaco viene provocato dall’incapacità del cuore di svolgere la normale funzione contrattile di pompa e di soddisfare il corretto apporto di sangue a tutti gli organi. Non è sempre facile evidenziarlo, ed infatti nello stadio precoce la malattia può essere asintomatica.

Che cos’è lo scompenso cardiaco?

Lo scompenso cardiaco è costituito da un insieme di sintomi e manifestazioni fisiche provocati dall’incapacità del cuore di svolgere la normale funzione contrattile di pompa e di soddisfare il corretto apporto di sangue a tutti gli organi. Lo scompenso cardiaco può verificarsi a qualsiasi età e può essere determinato da diverse cause. Lo sviluppo dell’insufficienza cardiaca può avvenire in genere a causa di una lesione muscolare cardiaca, ad esempio come conseguenza di un infarto del miocardio, di un’eccessiva sollecitazione cardiaca dovuta a un’ipertensione arteriosa non trattata o a causa di una disfunzione valvolare cronica. L’elettrocardiogramma di molti pazienti colpiti da scompenso cardiaco mostra un’alterazione denominata “blocco di branca sinistra” (BBS). È stato dimostrato che le conseguenze di questa alterazione della propagazione del battito cardiaco sono delle modificazioni dell’attività meccanica contrattile cardiaca, che provocano una dissincronia di contrazione e quindi un peggioramento della capacità contrattile del cuore.

Con quali sintomi si manifesta questa patologia

Dal punto di vista clinico non si può sempre evidenziare lo scompenso cardiaco: nello stadio precoce i pazienti non manifestano quasi nessun sintomo, oppure avvertono sintomi lievi, come per esempio l’affanno solo per sforzi molto elevati. Purtroppo l’andamento naturale della patologia è progressivo e i sintomi diventano gradualmente sempre più evidenti portando il paziente a effettuare accertamenti cardiologici per malessere. Nei soggetti affetti da scompenso cardiaco, l’incapacità del cuore di pompare il sangue efficacemente e di fornire ossigeno a organi importanti come reni e cervello, determina la comparsa di una serie di sintomi, fra i quali per esempio: dispnea (mancanza di fiato) da sforzo e a volte anche dispnea a riposo, edema degli arti inferiori, astenia, difficoltà respiratorie in posizione supina, tosse, addome gonfio o dolente, perdita di appetito, confusione, deterioramento della memoria.

La classificazione di gravità

Il grado di scompenso cardiaco viene classificato in base al livello di limitazione dell’attività fisica: la New York Heart Association individua quattro classi di scompenso cardiaco (Classe I, II, III o IV). I medici e le pubblicazioni mediche solitamente utilizzano questa classificazione per descrivere la gravità dello scompenso cardiaco e l’effetto del trattamento. La definizione delle classi si basa sui sintomi che si manifestano durante l’esercizio dell’attività:

Classe I. Paziente asintomatico (non presenta sintomi). L’attività fisica abituale non determina dispnea né affaticamento.

Classe II. Scompenso cardiaco lieve. L’attività fisica moderata (come salire due rampe di scale o salire alcuni gradini portando un peso) comporta dispnea o affaticamento

Classe III. Scompenso cardiaco da moderato a grave. L’attività fisica minima (come camminare o salire mezza rampa di scale) provoca dispnea o affaticamento.

Classe IV. Scompenso cardiaco grave. Astenia, dispnea o affaticamento sono presenti anche in una situazione di riposo (seduti o sdraiati a letto).

Diagnosi

La diagnosi di scompenso cardiaco si basa sulla valutazione clinica che tiene conto della storia clinica, dell’esame fisico e di appropriate indagini strumentali.

Tra le più importanti ci sono:

elettrocardiogramma,

radiografia del torace,

prelievo per dati ematochimici,

holter ECG 24 ore,

test ergometrico.

In alcuni casi risulta necessario effettuare cateterismo cardiaco e coronarografia.

Trattamenti

Il trattamento dello scompenso cardiaco è multidisciplinare e caratterizzato da vari livelli d’approccio. L’equipe medica ha come obiettivo finale quello di ridurre i sintomi per migliorare la qualità della vita, rallentare la progressione della patologia, ridurre l’ospedalizzazione e aumentare la sopravvivenza. Come per molte altre condizioni patologiche, le chiavi del successo nella gestione a breve e lungo termine di questa patologia sono rappresentate da una diagnosi precoce e dalla stretta collaborazione tra il proprio medico di fiducia e il cardiologo curante.

Nel trattamento dello scompenso cardiaco è previsto l’uso di diversi presidi:

Terapia farmacologica: spesso costituita dalla combinazione di più farmaci. È importante, inoltre, che si attuino delle modifiche allo stile di vita e alle abitudini alimentari, come per esempio la riduzione dell’apporto di sale, il controllo dei bilanci idrici, la pratica di attività fisica moderata periodica ecc…

Nel caso in cui la sola terapia farmacologica non risultasse sufficiente oppure non ben tollerata dal paziente, è necessario aggiungervi anche la terapia elettrica, attraverso l’impianto di dispositivi per la resincronizzazione cardiaca. Questi dispositivi lavorano in stretta sinergia con i farmaci antiscompenso, battito dopo battito, riuscendo così a frenare la progressione dello scompenso e in molti casi a ripristinare una contrattilità cardiaca normale e una buona qualità di vita. La terapia di risincronizzazione cardiaca, associata a un programma terapeutico adeguato, è risultata capace di migliorare la sopravvivenza e la qualità di vita di molti pazienti limitando i sintomi dell’insufficienza cardiaca, incrementando la capacità di esercizio e ponendo i soggetti in condizione di poter riprendere molte delle loro attività quotidiane.

I pacemaker biventricolari CRT-P o defibrillatori biventricolari CRT-D risultano essere un importante presidio di trattamento per lo scompenso ormai largamente clinicamente testato: sono in uso da molti anni e approvati dalle linee guida delle più grandi società mondiali di cardiologia. Sarà il cardiologo a stabilire quale dispositivo CRT sia più adatto al quadro clinico del paziente, in base alle condizioni del paziente e ai dati ecografici.

Come si può prevenire?

Per i soggetti a rischio cardiovascolare in cui si manifestino una disfunzione ventricolare sinistra asintomatica, noto precursore dello scompenso cardiaco sia di tipo sistolico che diastolico, e un’assenza di elementi considerati con chiarezza predittori di scompenso, è consigliabile prestare un’attenzione maggiore in termini di diagnostica preventiva e di terapia farmacologica.

Sindrome da prolasso valvolare mitralico

Sindrome da prolasso valvolare mitralico

 

La sindrome da prolasso valvolare mitralico è una patologia caratterizzata da un’alterazione di una delle valvole cardiache, la valvola mitrale, indicata come “prolasso della valvola mitrale”. Se si ha un corretto funzionamento del cuore la valvola mitrale si chiude completamente durante la contrazione del ventricolo sinistro e impedisce al sangue di refluire nell’atrio sinistro; nei soggetti affetti da prolasso mitralico uno (più spesso il posteriore) o entrambi i lembi della valvola sbandiera in atrio sinistro quando il ventricolo sinistro si contrae, impedendo la perfetta chiusura della valvola.

Che cos’è la sindrome da prolasso valvolare mitralico?

In condizioni normali la valvola mitrale è costituita da due sottili lembi mobili legati attraverso corde tendinee a due muscoli (i muscoli papillari) che, nel contrarsi insieme al ventricolo sinistro dove sono collocati impediscono lo sbandieramento dei lembi mitralici nell’atrio sinistro: i margini dei lembi vengono separati quando la valvola si apre, consentendo il passaggio del sangue dall’atrio sinistro al ventricolo sinistro, e si riavvicinano quando la valvola si chiude, impedendo al sangue di tornare indietro. Il prolasso valvolare mitralico è lo sbandieramento in atrio sinistro di uno o entrambi i lembi della valvola mitrale quando il ventricolo sinistro si contrae. Questo difetto valvolare interessa il 6% della popolazione circa, e colpisce in particolar modo il sesso femminile.

Da cosa può essere causata la sindrome da prolasso valvolare mitralico?

Si parla di forme “primarie” di prolasso valvolare mitralico – che possono essere familiari e non familiari – quando alla base ci sono condizioni come la sindrome di Marfan o altre patologie del connettivo; queste forme sono caratterizzate da un’esuberanza di tessuto nei lembi valvolari. Si parla di forme “secondarie” quando il prolasso è provocato da altre problematiche che coinvolgono il cuore, tra cui: cardiopatia ischemica, endocardite, difetto interatriale, cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva, forme tumorali.

Con quali sintomi si manifesta la sindrome da prolasso valvolare mitralico?

Nella maggior parte dei casi questa valvulopatia non è associata a sintomi particolari e consente di vivere una vita normale. Alcuni sintomi comunque possono essere:

dolore retrosternale prolungato, non associato all’esercizio fisico

palpitazioni

sincopi (ossia svenimenti)

Come si può prevenire la sindrome da prolasso valvolare mitralico?

Purtroppo non è possibile prevenire questo tipo di valvulopatia. Tuttavia, si può ridurre la probabilità di sviluppare le complicazioni a essa correlate seguendo le indicazioni del medico e assumendo i medicinali consigliati, quando vengono prescritti.

Diagnosi

Spesso questa valvulopatia risulta asintomatica e si ha una diagnosi spesso occasionale. La diagnosi è suggerita dal riscontro all’auscultazione cardiaca dei reperti tipici di questa valvulopatia (click seguito da un soffio). Sarà il medico poi a decidere se richiedere degli esami strumentali, come:

ECG: registra l’attività elettrica del cuore. Di solito è normale, ma a volte si possono riscontrare alterazioni della ripolarizzazione o aritmie.

Ecocardiogramma: è un test basato sull’immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio trasmette un fascio di ultrasuoni al torace, utilizzando una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). È l’esame più importante: permette la visualizzazione accurata del movimento dei lembi mitralici, permettendo un’appropriata valutazione dell’entità del prolasso e del suo meccanismo.

ECG dinamico secondo Holter: l’Holter è il monitoraggio prolungato nelle 24 ore dell’ECG. È indicato nei soggetti che segnalano palpitazioni per la valutazione di eventuali aritmie.

Test da sforzo: l’esame consiste nella registrazione di un elettrocardiogramma nel momento in cui il paziente compie un esercizio fisico, generalmente mentre cammina su un tapis roulant o pedala su una cyclette. Il test viene effettuato seguendo protocolli predefiniti, allo scopo di valutare al meglio la riserva funzionale del circolo coronarico. Viene interrotto alla comparsa di sintomi, alterazioni ECG o pressione elevata o una volta raggiunta l’attività massimale per quel paziente in assenza di segni e sintomi indicativi di ischemia. Viene suggerito per i soggetti che riferiscono sincopi o dolore toracico.

Trattamenti

Nella maggior parte dei casi il prolasso della valvola mitrale è asintomatico e il trattamento non risulta necessario. Sono opportuni periodici controlli clinici ed ecocardiografici. Se ci sono aritmie, può essere prescritto l’impiego di antiaritmici; i farmaci di prima scelta sono i beta-bloccanti.

 

Sindrome di Brugada

Sindrome di Brugada

 

Che cos’è la sindrome di Brugada e chi colpisce?

Entità clinica descritta nel 1992 dai fratelli Brugada, correlata a un rischio aumentato di morte cardiaca improvvisa in assenza di una cardiopatia strutturale. L’incidenza di eventi letali è più alto nei maschi nella terza e quarta decade di vita. Si tratta di una patologia genetica che coinvolge alcuni canali ionici, strutture poste sulla superficie delle cellule del cuore, provocandone un malfunzionamento e generando in tal modo degli squilibri nell’attività elettrica aumentando il rischio di insorgenza di aritmie potenzialmente fatali.

È caratterizzata dal punto di vista elettrocardiografico da un sopraslivellamento del tratto ST nelle derivazioni precordiali di destra (V1-V2-V3, al quarto spazio intercostale a destra e sinistra dello sterno), le derivazioni che registrano l’attività elettrica del tratto di efflusso del ventricolo destro.

La genetica nella sindrome di Brugada

L’alterazione delle correnti ioniche nella sindrome di Brugada riconosce un’origine genetica con trasmissione autosomica dominante: la prima mutazione che è risultata essere associata alla sindrome è un’alterazione nel gene che codifica per la proteina che costituisce il canale del sodio. Al momento una specifica mutazione genetica viene identificata nel 18-30% dei pazienti colpiti, ma con il progredire della ricerca genetica nuove mutazioni a carico di questo e di altri geni vengono progressivamente descritte.

Diagnostica

L’aspetto dell’elettrocardiogramma è di notevole importanza. La manifestazione elettrocardiografica nei soggetti colpiti non risulta costante, caratteristica che rende problematica la diagnosi di questa condizione. In presenza di tracciato anche solo sospetto, è opportuno effettuare una valutazione con ecg dinamico sec. holter al fine di valutare l’andamento dell’elettrocardiogramma nelle 24 ore. Il sopraslivellamento del tratto ST tipico è detto “a tenda”, poiché tende a discendere in linea retta fino a oltrepassare la linea isoelettrica e continuarsi con una onda T negativa. Il pattern a tenda è denominato di tipo 1; esistono i pattern tipo 2 con un sopra ST a concavità superiore di entità superiore a 1 mm, e di tipo 3 con sopraslivellamento inferiore a 1 mm (cosiddetto aspetto “a sella”). In un singolo paziente si possono riscontrare in diversi momenti diversi aspetti ECGgrafici, di cui il tipo I è ritenuto diagnostico.

L’aspetto ECG configura il fenomeno di Brugada; per poter definire la sindrome tuttavia è necessario avere anche il sintomo, ossia uno dei seguenti:

Fibrillazione ventricolare documentata

Tachicardia ventricolare polimorfa

Storia familiare di morte improvvisa in età < 45 anni

ECG con onda j e sopraslivellamento convesso di ST in membri della famiglia

Inducibilità di tachicardia ventricolare con la stimolazione programmata allo studio elettrofisiologico

Sincope

Respiro agonico notturno

Prima di effettuare una diagnosi di Brugada è necessario escludere altre cause che possono determinare un aspetto ECGgrafico simile: le miocarditi, la displasia aritmogena del ventricolo destro, l’assunzione cronica di alcuni farmaci o semplicemente la pratica sportiva intensa.

La particolare alterazione ECGgrafica nel fenomeno di Brugada è secondaria a uno squilibrio tra le correnti ioniche entranti e uscenti dalle cellule cardiache; è determinata in genere da una ridotta funzione dei canali che conducono la corrente entrante del sodio. La presenza di una corrente uscente di potassio (Ito), che è particolarmente rappresentata a livello del tratto di efflusso del ventricolo destro e che non viene controbilanciata da quella del sodio, evidenzia l’aspetto ECG in questa particolare sede.

La somministrazione di farmaci bloccanti i canali del sodio accentua le alterazioni dell’ECG e provoca la transizione dal tipo 2 o 3 al tipo 1.

Il rischio aritmico è determinato da una marcata eterogeneità nella polarizzazione di aree miocardiche adiacenti, vista la non uniforme distribuzione dello squilibrio tra le correnti ripolarizzanti e depolarizzanti. Questo facilita fenomeni di rientro che provocano aritmie ventricolari polimorfe, che a loro volta possono degenerare in fibrillazione ventricolare e arresto cardiaco.

Il test con farmaci bloccanti i canali del sodio

Se si ha un sospetto ECGgrafico di fenomeno di Brugada, anche nei familiari dei pazienti colpiti è stato proposto di eseguire un test provocativo con farmaci bloccanti i canali del sodio, che possono portare alla manifestazione di un quadro conclamato e alla diagnosi. Sarebbe razionale somministrare un farmaco che riduca la funzione del canale di cui già si sospetta un ridotto funzionamento, accentuando lo squilibrio con le correnti ripolarizzanti. I farmaci generalmente somministrati sono la flecainide, l’ajmalina, la procainamide ev. Generalmente si eseguono questi test in regime di ricovero in day hospital: previa costante monitorizzazione elettrocardiografica, si procede con l’esecuzione di un’infusione della durata di 10 minuti ed una successiva osservazione di ulteriori 10 minuti. Nel caso in cui il test risulti positivo e quindi ci sia l’eventuale necessità di ulteriori accertamenti, la degenza potrebbe essere prolungata.

Lo studio elettrofisiologico

Non per tutti i pazienti colpiti dal fenomeno di Brugada esiste un elevato rischio di morte improvvisa. Lo studio elettrofisiologico è stato proposto per testare la vulnerabilità aritmica ventricolare in pazienti con familiarità per morte cardiaca improvvisa, con pattern diagnostico spontaneo. Nel caso in cui il test risulti positivo per aritmie ventricolari pericolose, viene proposto il posizionamento di un defibrillatore impiantabile (ICD).

Trattamenti

L’unica terapia per cui esiste una prova di efficacia è il posizionamento di un defibrillatore impiantabile; viene proposto a pazienti sintomatici nei quali è presente un pattern di tipo 1, sia spontaneo che determinato da somministrazione di farmaci bloccanti i canali del sodio, e a pazienti nei quali si manifestano sintomi come sincope, respiro agonico notturno, lipotimie, una volta escluse tutte le cause non cardiache.

I pazienti asintomatici nei quali è evidente un pattern ECG Brugada spontaneo dovrebbero essere sottoposti a uno studio elettrofisiologico e, in caso di positività per aritmie ventricolari maligne, dovrebbero ricevere un defibrillatore impiantabile.

Se la terapia con defibrillatore impiantabile o le aritmie ricorrenti con interventi ripetuti del defibrillatore risultano inaccessibili, una terapia farmacologica con chinidina (bloccante sia della corrente uscente di potassio sia della corrente del sodio) può limitare l’eterogeneità di polarizzazione e ridurre il rischio aritmico.

Sindrome di Wolff-Parkinson-White (WPW)

Sindrome di Wolff-Parkinson-White (WPW)

 

Che cos’è la sindrome di Wolff-Parkinson-White?

In condizioni fisiologiche la conduzione dell’impulso elettrico dagli atrii ai ventricoli avviene su un’unica via rappresentata dal nodo atrio-ventricolare e fascio di His. Il nodo atrio-ventricolare ha caratteristiche elettrofisiologiche di velocità di conduzione e tempo di refrattarietà tali da costituire un filtro in grado di proteggere i ventricoli dalla conduzione di impulsi atriali troppo rapidi e potenzialmente pericolosi. In alcuni casi esistono vie di conduzione dette accessorie (VA) tra atrii e ventricoli che possono essere localizzate in vari siti degli anelli valvolari tricuspidalico e mitralico. Per le loro caratteristiche elettrofisiologiche, simili alle cellule del muscolo cardiaco comune, queste vie accessorie non hanno la funzione di filtro tipica del nodo atrioventricolare, e in alcuni casi possono condurre gli impulsi ai ventricoli a frequenze molto elevate. Durante il ritmo sinusale una via accessoria si manifesta all’elettrocardiogramma con la pre-eccitazione ventricolare e la presenza di un’onda “delta”: la conduzione attraverso la via accessoria non è sottoposta a un rallentamento come all’interno del nodo atrioventricolare e l’intervallo PQ dell’elettrocardiogramma (che rappresenta appunto il percorso dell’impulso elettrico dagli atrii ai ventricoli) è più breve del normale (pre-eccitazione). Inoltre l’estremità ventricolare della via accessoria si inserisce nel muscolo cardiaco comune anziché essere in continuità con il sistema specializzato di conduzione: per questo motivo la depolarizzazione di una parte dei ventricoli si verifica in modo più lento, e si traduce in un aspetto elettrocardiografico detto onda “delta”.

Se la presenza di una via accessoria è correlata a episodi di palpitazione si parla di Sindrome di Wolff-Parkinson-White. Le palpitazioni possono dipendere da “aritmie da rientro”, che sono provocate da un corto circuito in cui l’impulso solitamente raggiunge i ventricoli tramite il nodo atrioventricolare e rientra negli atrii mediante la via accessoria percorsa in senso inverso. L’aritmia viene perpetuata fino a quando una delle due vie (nodo o via accessoria) risulta non essere più capace di condurre. In alcuni casi meno frequenti il circuito è percorso al contrario, ossia la via accessoria è utilizzata nel senso dagli atrii ai ventricoli, mentre l’impulso rientra agli atrii attraverso il fascio di His e il nodo atrioventricolare. In altri casi la via accessoria non direttamente parte del meccanismo che perpetua l’aritmia, ma può contribuire alla conduzione ai ventricoli di aritmie degli atrii (fibrillazione atriale/flutter atriale/tachicardia atriale). Se le capacità di conduzione della VA sono molto elevate (breve tempo di refrattarietà) la frequenza ventricolare che ne consegue può essere molto rapida (> 250 battiti al minuto) e mettere a rischio di aritmie ventricolari rapide e di arresto cardiaco.

Come effettuare la diagnosi

La diagnosi di sindrome di wpw è clinica ed elettrocardiografica. Da un punto di vista clinico è possibile che si manifesti con palpitazioni secondarie alle su menzionate aritmie da rientro; dal punto di vista elettrocardiografico risultano caratteristici l’accorciamento dell’intervallo pq e la presenza di onda delta.

Trattamenti

Il trattamento degli episodi acuti di aritmie da rientro nella Sindrome di WPW comprende farmaci che agiscono bloccando la conduzione tramite il nodo atrioventricolare, interrompendo uno dei bracci dell’aritmia. In caso di fibrillazione atriale condotta rapidamente attraverso la via accessoria, invece, bisogna evitare questi farmaci in quanto possono, in certi casi, incrementare la frequenza di conduzione ai ventricoli attraverso la via accessoria.

Se si manifesta una pre-eccitazione ventricolare e a prescindere dalla presenza di sintomi aritmici, è consigliabile sottoporsi a studio elettrofisiologico per investigare sulle capacità conduttive della via accessoria e la inducibilità di aritmie. Se la via accessoria ha elevate capacità conduttive e presenta il rischio di frequenze ventricolari elevate durante eventuali episodi di fibrillazione atriale, o quando si manifestano sintomi e aritmie da rientro, è opportuno procedere alla ablazione della via accessoria.

Con lo studio elettrofisiologico è possibile identificare la sede della via accessoria, che determinerà l’approccio utilizzato per l’ablazione: in presenza di una via situata nelle sezioni destre del cuore l’accesso avviene generalmente attraverso la vena femorale destra.

Per le vie sinistre saranno possibili un accesso venoso e successiva puntura transettale per passare dall’atrio destro all’atrio sinistro, oppure un approccio “retrogrado” tramite le arterie femorale e aorta. È la radiofrequenza l’energia che viene utilizzata per l’ablazione. Dopo un’ablazione efficace si potranno prevenire episodi di aritmia da rientro tramite la via accessoria e l’elettrocardiogramma non potrà più visualizzare l’onda delta. Generalmente l’efficacia a lungo termine dell’ablazione è molto elevata e supera il 95%.

Dopo un’ablazione efficace e in mancanza di altri tipi di aritmia o di cardiopatia, non risulta necessario procedere ad alcuna terapia farmacologica.

Soffio cardiaco

Soffio cardiaco

 

Il soffio cardiaco si manifesta con un rumore anomalo evidenziato dall’auscultazione del torace durante la visita medica. In alcuni casi non è collegato ad alcuna patologia, pertanto viene definito “innocente”, mentre in altre situazioni potrebbe segnalare la presenza di malattie cardiache che è necessario trattare opportunamente.

 

Che cos’è il soffio cardiaco?

In condizioni normali il cuore produce solo suoni causati dalla chiusura delle valvole. Il “soffio cardiaco” è rappresentato da un rumore prodotto dal flusso turbolento del sangue attraverso le valvole, all’interno delle camere cardiache o nelle strutture vascolari maggiori posizionate in prossimità del cuore stesso. Se il soffio è correlato a una patologia cardiaca può essere presente dalla nascita (patologia congenita) o manifestarsi nel corso degli anni (patologia acquisita). Se invece non è possibile collegarlo ad alcuna patologia obiettivabile, il soffio, verosimilmente prodotto da un’elevata velocità di transito del sangue all’interno del cuore e delle valvole, viene definito “ innocente”.

 

Da cosa può essere causato il soffio cardiaco?

Il soffio “innocente” viene generato dal passaggio più veloce del sangue attraverso le strutture cardiache. L’incremento della velocità può essere innescato dall’attività fisica, dalla febbre, dall’anemia, dall’ipertiroidismo, da una gravidanza. Il soffio cardiaco patologico, invece, può essere collegato a difetti congeniti del cuore (il caso più frequente nei bambini) o a problemi alle valvole cardiache che si manifestano in età adulta (come alterazioni degenerative, calcificazioni, lassità o prolasso dei lembi). Le alterazioni valvolari che favoriscono lo sviluppo di un soffio possono anche rappresentare il risultato di infezioni, come avviene nell’endocardite e, indirettamente, nella febbre reumatica.

 

Con quali sintomi si manifesta il soffio cardiaco?

Il soffio “innocente” non è correlato ad alcuna sintomatologia cardiologica per definizione. È anche possibile che i soffi cardiaci che derivano da malattie del cuore non si accompagnino a sintomi specifici, nonostante avvenga più frequentemente che, in base alla gravità della patologia, vengano riscontrati in pazienti che manifestano cianosi della cute (soprattutto a livello di dita e labbra), gonfiori agli arti inferiori o aumento improvviso di peso, fiato corto, tosse cronica, fegato ingrossato, dilatazione e turgore delle vene del collo, dolore al petto, vertigini, svenimenti e, nei bambini, scarso appetito e problemi di crescita.

 

Come si può prevenire il soffio cardiaco?

Non ha senso parlare di prevenzione nel caso del soffio cardiaco patologico, poiché rappresenta un segno di malattia cardiaca che si è già verificata.

 

Diagnosi

Solitamente il soffio cardiaco viene rilevato nel corso di una visita medica, in cui il medico ausculta il cuore con lo stetoscopio appoggiato sul torace.

Sarà il medico a valutare l’intensità del soffio, la sua posizione rispetto alle valvole cardiache (ogni valvola viene meglio “auscultata” in alcune posizioni specifiche sul torace), il suo tono, il momento di comparsa nel ciclo cardiaco, la durata ed eventuali fattori in grado di modificarlo come la respirazione del paziente o l’attività fisica, allo scopo di stabilire la gravità del problema.

Per arrivare all’ipotesi di una causa il medico investigherà anche su eventuali patologie e disturbi cardiaci presenti in famiglia.

Nel caso in cui si sospetti un soffio patologico, gli esami che potrebbero essere prescritti sono:

Radiografia (Rx) torace

Elettrocardiogramma (ECG)

Ecocardiogramma transtoracico o transesofageo

TAC cuore

Risonanza Magnetica Nucleare (RMN) cuore

Cateterismo cardiaco

 

Trattamenti

In genere per il paziente che presenta un soffio cardiaco “innocente” non è richiesto alcun trattamento specifico. Se il soffio venisse collegato a una malattia extracardiaca, come l’ipertiroidismo o l’anemia, scomparirà attraverso la cura della patologia sottostante.

Talvolta anche per il soffio patologico non è necessario alcun trattamento: in questo caso il medico raccomanderà solo controlli regolari per monitorare la situazione.

Secondo la gravità della malattia associata al soffio potrà essere indicato:

L’assunzione di vari farmaci, che spaziano dagli antiaritmici agli anticoagulanti ai medicinali per ridurre la pressione (diuretici, ACE-inibitori, betabloccanti).

Interventi chirurgici veri e propri o interventi percutanei effettuati tramite l’inserzione di cateteri nei vasi sanguigni e il posizionamento degli stessi all’interno delle strutture cardiache, per eliminare o correggere anomalie specifiche.

Stenosi aortica

Stenosi aortica

 

La stenosi aortica è una malattia congenita o acquisita della valvola aortica, caratterizzata da una riduzione della capacità di apertura della valvola stessa.

Che cos’è la stenosi aortica?

La stenosi aortica è rappresentata da una riduzione della capacità di apertura della valvola aortica. La stenosi aortica si presenta come un’ostruzione alla fisiologica fuoriuscita del sangue tra il ventricolo sinistro e l’aorta nel corso della sistole, ossia nel momento della contrazione del cuore.

La stenosi aortica determina un sovraccarico di pressione dell’emissione del sangue sul ventricolo, che per compensare e adattarsi a questa situazione, ispessisce le proprie pareti (ipertrofia concentrica), ma provocando tuttavia un aumento di fatica per il cuore.

La stenosi aortica si manifesta solitamente in età matura, tra i 60 e 70 anni, ma l’esordio può essere precedente nei pazienti con valvola bicuspide. L’aumento della frequenza della malattia è direttamente proporzionale all’innalzamento dell’età media della popolazione.

Da cosa può essere causata la stenosi aortica?

Solitamente la stenosi aortica è causata dal naturale invecchiamento dell’organismo e dalla calcificazione della valvola, delle cuspidi e dell’anello valvolare. La causa può essere anche riconducibile a malformazioni congenite o origini reumatiche.

Con quali sintomi si manifesta la stenosi aortica?

Una stenosi moderata non si manifesta attraverso sintomi particolari. Nei casi più importanti (stenosi aortica severa) invece è possibile giungere a un’insufficienza cardiaca con: affanno sotto sforzo, presenza di edemi (ai polmoni o agli arti inferiori), dolore al torace, perdita di coscienza (sincope o pre-sincope con vertigini, sensazione di svenimento o stordimento) in seguito a sforzo. Questi sintomi si possono manifestare anche in una situazione di riposo.

Diagnosi

L’ecocardiografia rappresenta la tecnica diagnostica migliore per effettuare una diagnosi di stenosi aortica. Attraverso un esame ecocardiografico con tecnologia Doppler è possibile confermare la diagnosi, valutare la gravità della situazione e le ripercussioni sul cuore.

Grazie all’ecocardiografia è possibile:

Tracciare l’anatomia valvolare.

Stimare le calcificazioni valvolari.

Misurare l’ampiezza di apertura residua della valvola aortica.

Valutare la funzionalità cuore ed escludere o confermare la presenza di un’ipertrofia delle pareti.

Il Doppler consente invece di:

Misurare la velocità del sangue a livello dell’orifizio aortico; un dato importante per accertare un’eventuale differenza di pressione tra il ventricolo sinistro e l’aorta.

Valutare la superficie dell’orifizio valvolare.

 

Stenosi mitralica

Stenosi mitralica

 

La stenosi mitralica o stenosi della valvola mitrale è una condizione patologica caratterizzata dal non corretto funzionamento della valvola mitrale – ovvero la valvola cardiaca che consente al sangue di passare dall’atrio sinistro al ventricolo sinistro, la principale camera di pompaggio del cuore – a causa di un restringimento (stenosi).

Che cos’è la stenosi mitralica?

In condizioni normali la valvola mitrale è costituita da due sottili lembi mobili legati attraverso corde tendinee a due muscoli (i muscoli papillari) che, nel momento in cui si contraggono insieme al ventricolo sinistro dove sono posizionati, impediscono lo sbandieramento (prolasso) dei lembi mitralici nell’atrio sinistro: i margini dei lembi vengono separati quando la valvola si apre, consentendo al sangue di passare dall’atrio sinistro al ventricolo sinistro, e si riavvicinano quando la valvola si chiude, impedendo al sangue di tornare indietro.

Però è possibile che la valvola abbia delle alterazioni che ne provocano un restringimento (stenosi):

Presenza di ring sopramitralico: in questo caso un anello di tessuto fibroso al di sopra della valvola mitrale limita il passaggio di sangue all’interno della valvola.

Valvola mitrale “a paracadute”: i lembi della valvola sono allungati e collegati a un unico muscolo papillare.

Ispessimento e fusione dei lembi, che non possono più muoversi indipendentemente l’uno dall’altro.

La presenza di una stenosi mitralica determina un aumento della pressione nell’atrio sinistro, per permettere al sangue di passare dall’atrio al ventricolo sinistro. Questo meccanismo compensatorio ne provoca a sua volta altri: incremento della pressione nelle vene che dai polmoni riportano il sangue al cuore, con conseguente accumulo di liquido nei polmoni (congestione), e incremento della pressione nelle arterie polmonari (ipertensione polmonare), che sottopone il ventricolo destro a un sovraccarico di lavoro, che alla lunga può sfiancarlo, generando un’insufficienza cardiaca. Se non viene curata, la stenosi della valvola mitrale può quindi avere gravi conseguenze.

Da cosa può essere causata la stenosi mitralica?

La causa di gran lunga più frequente di stenosi mitralica è la malattia reumatica, una sindrome autoimmune che può essere innescata da infezioni streptococciche. Questa affezione – sempre più rara nei Paesi industrializzati, ma ancora molto comune nei Paesi in via di sviluppo – può causare danni ai lembi della valvola mitrale impedendo, quindi, il loro corretto funzionamento. La malattia reumatica può causare l’ispessimento e la fusione dei due lembi della valvola impedendole di aprirsi correttamente nel primo caso e di aprirsi e chiudersi correttamente nel secondo.

Alla base della stenosi mitralica è possibile rilevare anche un difetto cardiaco congenito:

è possibile che un bambino nasca con un restringimento della valvola mitrale e sviluppi una stenosi mitralica significativa nei primi anni di vita;

oppure si può nascere con una valvola mitralica difettosa che mette a rischio di sviluppare una stenosi mitralica in età avanzata.

Anche la calcificazione della valvola può essere una causa di stenosi mitralica: con l’avanzare dell’età, è possibile che si accumulino depositi di calcio a livello dell’anello valvolare mitralico, determinandone il restringimento.

Con quali sintomi si manifesta la stenosi mitralica?

Non sempre la stenosi mitralica è associata a sintomi particolari: si può soffrire di questa condizione e sentirsi bene, oppure si possono riscontrare sintomi modesti che permettono di condurre una vita senza particolari limitazioni per decenni. La sintomatologia – che può insorgere o peggiorare improvvisamente – include:

stanchezza e facile faticabilità

mancanza di respiro, soprattutto sotto sforzo o quando ci si sdraia

gonfiore ai piedi e alle caviglie

palpitazioni

frequenti infezioni respiratorie (es. bronchite)

tosse stizzosa

dolore toracico

Come si può prevenire la stenosi mitralica?

Il modo migliore per effettuare una prevenzione della stenosi della valvola mitrale è prevenirne la causa più comune, ossia la malattia reumatica. È importante quindi fare un corretto trattamento antibiotico delle infezioni alla gola provocate da streptococchi. Attualmente grazie all’utilizzo degli antibiotici, nei Paesi industrializzati la malattia reumatica è assai rara.

Diagnosi

Per effettuare la diagnosi di stenosi mitralica, il medico vi ausculterà il cuore con lo stetoscopio. Oltre al cuore, il medico ausculterà i polmoni per verificare l’eventuale presenza di congestione polmonare. Nel caso in cui si rilevino rumori cardiaci anomali e/o di congestione polmonare, il medico potrà prescrivere l’esecuzione di diversi esami strumentali. Tra questi:

ECG: registra l’attività elettrica del cuore. L’alterazione più frequente provocata dalla stenosi mitralica è la comparsa di segni di dilatazione dell’atrio sinistro; si possono poi presentare aritmie, tipicamente la fibrillazione atriale.

Ecocardiogramma transtoracico: è un test basato sull’immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio trasmette un fascio di ultrasuoni al torace, utilizzando una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). Rappresenta l’esame più importante. Consente la valutazione del meccanismo e dell’entità della stenosi mitralica, oltre che le dimensioni dell’atrio sinistro e del ventricolo destro e la funzione contrattile di quest’ultimo, e la presenza di ipertensione polmonare. Le immagini in tempo reale possono essere raccolte anche mentre si esegue un test da sforzo (eco stress): l’esecuzione di un eco stress viene suggerita quando c’è discrepanza tra la gravità dei sintomi e l’entità della stenosi mitralica a riposo.

Ecocardiogramma transesofageo: in questo caso la sonda si introduce dalla bocca e si spinge in avanti fino a raggiungere l’esofago. Permette una visualizzazione migliore delle valvole e delle strutture paravalvolari. È importante per pianificare la strategia terapeutica.

ECG dinamico secondo Holter: l’Holter è il monitoraggio prolungato nelle 24 ore dell’ECG. Può registrare aritmie.

RX torace: permette la valutazione di dimensioni e forma del cuore; l’eventuale dilatazione dell’atrio sinistro; l’eventuale presenza di liquido nei polmoni (congestione).

Cateterismo cardiaco: metodica invasiva basata sull’introduzione di un piccolo tubo (catetere) in un vaso sanguigno; il catetere viene poi spinto fino al cuore e permette l’acquisizione delle informazioni importanti sul flusso e sull’ossigenazione del sangue e sulla pressione all’interno delle camere cardiache e delle arterie e delle vene polmonari. Registra la presenza di un gradiente di pressione transmitralico e, nei casi più gravi, ipertensione polmonare e disfunzione contrattile del ventricolo destro. Viene ormai proposto raramente: si effettua in genere quando si verifica una discrepanza tra la gravità dei sintomi e l’entità della stenosi all’ecocardiogramma.

Trattamenti

La terapia della stenosi della valvola mitrale comprende farmaci e diverse procedure interventistiche: la scelta viene fatta in base alle caratteristiche del paziente e alla gravità della stenosi mitralica.

In caso di stenosi mitralica lieve o moderata sono sufficienti periodici controlli clinici ed ecocardiografici.

La terapia farmacologica della stenosi mitralica comprende:

Farmaci anticoagulanti per prevenire eventi embolici in caso di fibrillazione atriale, pregressi eventi embolici, presenza di un trombo nell’atrio sinistro.

Farmaci che rallentano la frequenza cardiaca, come i beta-bloccanti o i calcio-antagonisti, in presenza di fibrillazione atriale ad ala frequenza.

Diuretici: in caso di accumulo di liquidi.

La terapia interventistica della stenosi mitralica comprende la commissurotomia con palloncino che consiste nella dilatazione della valvola stenotica ottenuta mediante l’introduzione di un palloncino tramite catetere attraverso un vaso sanguigno del braccio o dell’inguine. Una volta posizionato il palloncino sulla punta del catetere viene gonfiato, provocando la dilatazione della valvola. Il palloncino viene poi sgonfiato ed estratto dal corpo insieme al catetere. Nel tempo, può essere necessario ripetere la procedura.

La terapia chirurgica della stenosi mitralica include:

la commissurotomia, che è la semplice dilatazione della valvola;

la valvuloplastica, quando il chirurgo “ripara” la valvola;

la sostituzione della valvola mitrale, quando il chirurgo rimuove la valvola mitrale danneggiata e la sostituisce con una valvola protesica meccanica o biologica.

 

 

Tachicardia da rientro nodale (TRN)

Tachicardia da rientro nodale (TRN)

 

Patologia che rientra nella categoria delle tachiaritmie: si tratta di una delle più comuni tachicardie sopraventricolari. Questa patologia rappresenta il 60% di tutte le tachicardie sopraventricolari e colpisce prevalentemente il sesso femminile e i giovani adulti.

Gli episodi di tachicardia da rientro nodale vengono percepiti come accessi di batticuore molto rapido e regolare ad insorgenza e interruzione improvvisa. La durata degli episodi può variare da pochi secondi ad alcune ore e, salvo concomitanti patologie cardiache, vengono generalmente ben tollerati. Tra i sintomi più comuni sono inclusi palpitazioni, lipotimia, ansia, dolore toracico e dispnea. È possibile che si verifichi una sincope (svenimento comune) nei casi in cui l’aritmia si presenti a una frequenza ventricolare molto elevata.

Che cosa accade?

In condizioni normali il battito cardiaco generatosi nel nodo seno atriale (situato nell’atrio destro), si propaga negli atrii e raggiunge il nodo atrio-ventricolare, che è la sola via di comunicazione elettrica tra atri e ventricoli; da qui c’è il passaggio al fascio di His e al sistema di conduzione intraventricolare.

Nei pazienti con tachicardia da rientro nodale AV il nodo si comporta come se fosse formato da due vie di conduzione distinte: una a conduzione più rapida e l’altra a conduzione più lenta.

Gli episodi di tachicardia si verificano quando, in conseguenza di una extrasistole, l’impulso percorre in senso anterogrado la via lenta e trova la via rapida capace di condurre l’impulso in senso inverso, retrogrado, scatenando un “micro-corto circuito” all’interno del nodo atrioventricolare che provoca la contrazione contemporanea di atrio e ventricolo.

Diagnosi

Una precisa descrizione dei sintomi, ed in particolare delle circostanze e modalità di presentazione degli episodi di tachicardia, può indirizzare il cardiologo verso la diagnosi corretta.

L’elettrocardiogramma registrato durante l’episodio aritmico è diagnostico in quasi tutti i casi. La diagnosi di certezza del meccanismo della tachicardia si effettua attraverso lo studio elettrofisiologico endocavitario.

Trattamenti

L’urgenza nella necessità di un trattamento dell’aritmia verrà determinata dall’entità dei sintomi e dal contesto clinico: la risoluzione del singolo episodio può essere spontanea o conseguente a manovre o farmaci che agiscono sulle capacità conduttive delle vie nodali.

Solitamente si tentano prima di tutto delle manovre di stimolazione vagale: massaggio del seno carotideo, manovra di Valsalva.

Se le manovre non si dimostrano efficaci, verranno impiegati farmaci come l’adenosina o i calcio antagonisti.

Una volta risolto l’episodio acuto, si procede con la terapia attualmente riconosciuta come gold standard, lo studio elettrofisiologico con ablazione trans catetere. Durante lo studio elettrofisiologico, una volta confermata la presenza di doppia via nodale e fatta diagnosi di tachicardia da rientro nodale, si procede all’ablazione del circuito, in particolare all’ablazione della via nodale AV lenta.

Come si può prevenire?

Non esiste una strategia di prevenzione in quanto si tratta un’aritmia che dipende da specifiche caratteristiche elettriche intrinseche del nodo atrioventricolare. Quando si manifestano i sintomi e si fa la diagnosi, il paziente va indirizzato allo studio elettrofisiologico ed all’ablazione.

Deve essere segnalato il fatto che esiste una certa familiarità dell’aritmia, anche se non vi è una vera trasmissione genetica.

Tachicardia ventricolare (TV)

Tachicardia ventricolare (TV)

 

Si tratta di un’aritmia quasi sempre rapida secondaria a ritmo cardiaco accelerato che nasce dai ventricoli. Se tutti i battiti si originano dallo stesso sito ventricolare si definisce monomorfa, altrimenti polimorfa. Possono essere sostenute o non sostenute, a seconda della loro durata.

Che cos’è la tachicardia ventricolare e da cosa è causata?

La tachicardia ventricolare è rappresentata da un ritmo cardiaco accelerato originato dai ventricoli. Viene definita monomorfa se tutti i battiti presentano la stessa morfologia all’elettrocardiogramma, ossia se originano dallo stesso sito ventricolare; si definisce polimorfa in caso contrario. In base alla durata vengono definite sostenute o non sostenute, tollerate o non tollerate in base all’eventuale perdita di coscienza durante l’aritmia. La tolleranza di una tachicardia ventricolare dipende dalla frequenza cardiaca, dalla funzione di pompa del cuore e dall’efficacia di una risposta vasocostrittiva periferica.

Generalmente si verificano in presenza di alterazioni strutturali del muscolo cardiaco che determinano dei circuiti di rientro in cui un singolo impulso elettrico circola indefinitamente nelle camere ventricolari. Il substrato più frequente è la presenza di una cicatrice infartuale. La displasia/cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro rappresenta invece una causa non ischemica di tachicardia ventricolare correlata ad alterazioni strutturali. Più di rado vengono determinate da focolai ventricolari che generano automaticamente impulsi elettrici accelerati. In base alla presenza e al tipo di cardiopatia associata, le tachicardie ventricolari sono associate a prognosi più o meno maligne. Una delle più frequenti cause di tachicardia ventricolare benigna è rappresentata dalla tachicardia ventricolare a origine dal tratto di efflusso del ventricolo destro, di tipo focale.

Una forma particolare di tachicardia ventricolare è rappresentata dalla “torsione di punta”: si tratta di una forma polimorfa e a frequenza molto elevata, in genere autolimitantesi, ma che può degenerare in fibrillazione ventricolare e arresto cardiaco. Si correla a cardiopatie aritmogene ereditarie con difetti a carico dei canali ionici delle cellule miocardiche (Sindrome del QT lungo).

Diagnosi

La diagnosi della tachicardia ventricolare è elettrocardiografica ed è basata sul reperto di un ritmo cardiaco rapido con complesso qrs (il segnale elettrico proveniente dai ventricoli) allargato.

Trattamenti

I trattamenti possibili sono collegati al tipo di tachicardia e all’eventuale cardiopatia associata, e includono:

farmaci antiaritmici

ablazione trans catetere

impianto di un defibrillatore

Tachicardie atriali

Tachicardie atriali

 

Con il termine tachicardie atriali si indicano i ritmi tachicardici (frequenza > 100 battiti/minuto) in cui l’impulso elettrico cardiaco non viene originato dal normale automatismo del nodo seno atriale, dove generalmente ha origine il battito cardiaco.

Generalmente l’origine delle tachicardie atriali è focale, ossia l’impulso elettrico si genera in uno specifico sito dell’atrio destro o sinistro da cui si diffonde in maniera centrifuga. Il loro meccanismo è determinato dall’attivazione di un gruppo di cellule da cui vengono emessi impulsi a frequenza cardiaca elevata, sostituendosi al centro fisiologico del battito che è il nodo seno atriale.

Come effettuare la diagnosi

Elettrocardiogramma

Trattamenti

Terapia farmacologica (sia betabloccante sia con altri farmaci antiaritmici)

Cardioversione elettrica esterna

Studio elettrofisiologico

Ablazione

Tromboflebite

Tromboflebite

 

Si definisce tromboflebite l’infiammazione di una o più vene collegata a un rigonfiamento provocato da un coagulo di sangue; colpisce più frequentemente le vene delle gambe.

Che cos’è la tromboflebite?

I rigonfiamenti correlati a coaguli di sangue interessano più di frequente le vene che scorrono nelle gambe, ma in alcune situazioni possono coinvolgere le braccia o il collo. Quando la vena affetta è in superficie si tratta di tromboflebite superficiale, mentre se si trova più vicino ai muscoli si parla di trombosi venosa profonda. Il rischio di formazione di emboli è incrementato dalla presenza di coaguli nelle vene più profonde; raramente, invece, una tromboflebite superficiale può determinare una serie complicazioni.

Da cosa può essere causata la tromboflebite?

Tra le cause della tromboflebite ci possono essere periodi di inattività prolungati, come un riposo forzato a letto, o molte ore in posizione seduta come può accadere durante un lungo viaggio in aereo. Chi soffre di disturbi che aumentano la probabilità di formazione di coaguli di sangue (in particolare di difetti nella coagulazione del sangue) e coloro che rimangono a lungo ricoverati in ospedale per un intervento chirurgico o una malattia importanti sono particolarmente soggetti al rischio di sviluppare questa patologia.

Con quali sintomi si manifesta la tromboflebite?

La tromboflebite si manifesta con gonfiori e dolore nella parte interessata, calore e indolenzimento lungo la vena coinvolta e a volte arrossamenti della cute.

Come si può prevenire la tromboflebite?

Per prevenire la formazione dei coaguli di sangue alla base della tromboflebite è essenziale mantenersi in attività.

È opportuno alzarsi ogni tanto durante i viaggi in aereo, così come è consigliabile fare delle soste e camminare un po’ quando si fanno dei lunghi viaggi in macchina.

Se si è obbligati a stare seduti a lungo si dovrebbe cercare di muovere spesso le gambe, anche premendo la pianta del piede sul pavimento, evitare di indossare capi d’abbigliamento che stringano la vita e bere molta acqua.

È utile utilizzare calze contenitive e seguire le indicazioni fornite dal proprio medico nei casi in cui si presenti il rischio di trombosi venosa profonda.

 

Trombosi venosa profonda

Trombosi venosa profonda

 

Ciò che caratterizza la trombosi venosa profonda è la formazione di un coagulo di sangue (o trombo) in una o più vene localizzate in profondità. Solitamente sono i vasi sanguigni presenti nelle gambe a essere coinvolti.

Che cos’è la trombosi venosa profonda?

La trombosi venosa profonda è una patologia seria: è possibile, infatti, che i coaguli di sangue presenti nelle vene profonde si stacchino e vengano trasportati fino ai polmoni, dove bloccano il flusso sanguigno determinando la cosiddetta embolia polmonare. Il rischio di sviluppare una trombosi venosa profonda può essere incrementato da diversi fattori: rimanere seduti o sdraiati a lungo (ad esempio durante un viaggio aereo o un ricovero in ospedale), malattie ereditarie che compromettono la corretta coagulazione del sangue, traumi o interventi chirurgici, il sovrappeso e l’obesità, il fumo, la gravidanza, l’assunzione della pillola anticoncezionale o della terapia ormonale sostituiva, alcune forme di cancro, un arresto cardiaco, essere portatori di pacemaker, cateteri inseriti in una vena e casi di trombosi venosa profonda in famiglia.

Da cosa può essere causata la trombosi venosa profonda?

La causa della trombosi venosa profonda è rappresentata dalla formazione di un coagulo di sangue in una o più vene localizzate in profondità, vicino ai muscoli. La formazione di questo coagulo può essere correlata ad alterazioni della parete vascolare o del flusso del sangue o a un incremento della coagulazione del sangue.

Con quali sintomi si manifesta la trombosi venosa profonda?

Generalmente la trombosi venosa profonda è asintomatica; in alcuni casi può manifestarsi con gonfiore e dolore alla gamba, alla caviglia e al piede, crampi ai polpacci, riscaldamento dell’area interessata e cambiamenti del colore della pelle (che può risultare pallida, arrossata o cianotica).

Come si può prevenire la trombosi venosa profonda?

Per prevenire la trombosi venosa profonda è opportuno seguire le indicazioni del proprio medico in relazione all’eventuale assunzione di farmaci o all’utilizzo di calze contenitive. È necessario evitare periodi di immobilità prolungata; se si è costretti a stare seduti a lungo bisogna alzarsi di tanto in tanto o muovere le gambe, anche premendo i piedi sul pavimento.

Per ridurre i rischi è importante anche mantenere il peso forma, non fumare e tenere sotto controllo la pressione.

Vene varicose (o varici)

Vene varicose (o varici)

 

La vena varicosa, nota anche come varice, è un disturbo caratterizzato dalla dilatazione permanente di una vena – che appare tortuosa e visibile a occhio nudo – correlata ad alterazioni delle sue pareti. Sono le vene degli arti inferiori quelle maggiormente colpite da questo disturbo.

Che cosa sono le vene varicose?

A differenza di quanto generalmente si creda le vene varicose non sono principalmente un disturbo estetico, ma rappresentano una vera e propria patologia che interessa il sistema circolatorio. È possibile che provochino dolore e, in alcuni casi, che portino anche a problematiche di salute più gravi. Possono anche essere sintomatiche di un rischio più elevato che si sviluppino problematiche circolatorie.

Da cosa sono causate le vene varicose?

Mentre le arterie hanno la funzione di portare il sangue dal cuore ai tessuti, il compito che svolgono le vene è quello di portare il sangue cosiddetto “di ritorno” dai tessuti al cuore; pertanto, le vene delle gambe devono lavorare contro la forza di gravità per consentire al sangue di risalire verso il cuore. Per spingere il sangue verso l’alto ed evitare, al contempo, il suo rifluire verso il basso, le pareti delle vene devono necessariamente essere elastiche e le valvole venose devono funzionare al meglio: quando questo meccanismo non è perfetto, le vene non riescono a far risalire il sangue verso il cuore, per cui si creano dei ristagni di sangue nelle vene che provocano la comparsa delle varici.

Tra i principali fattori di rischio troviamo:

Familiarità

Sesso femminile

Vita sedentaria

Sovrappeso o obesità

Attività lavorative che inducono a stare in piedi per molte ore al giorno.

Età: con il passare degli anni le pareti delle vene tendono a diventare meno elastiche e le valvole tendono a indebolirsi.

Gravidanza: in alcune donne incinte si sviluppano le vene varicose. Questo dipende da una parte dal fatto che il volume del sangue materno aumenta per supportare la crescita del feto, e dall’altra dal fatto che l’utero, in particolare negli ultimi mesi di gestazione, esercita un’importante pressione sulle vene delle gambe. Anche i cambiamenti ormonali vengono ritenuti responsabili in parte della formazione delle vene varicose in questa fase della vita delle donne. Generalmente, però, le varici che si sviluppano durante la gestazione migliorano anche senza trattamento medico entro il primo anno dopo il parto.

Con quali sintomi si manifestano le vene varicose?

Quando si sviluppano le varici, le vene appaiono blu o viola scuro e possono essere sporgenti. Le vene varicose possono provocare dei fastidi. Quando questo accade, i sintomi possono essere:

una sensazione di indolenzimento o pesantezza alle gambe

crampi notturni

sensazione di bruciore alle gambe che può essere associata a gonfiore

dolore che peggiora dopo essere stati seduti o in piedi per molto tempo

prurito nella zona della varice.

Come si possono prevenire le vene varicose?

Nel caso delle vene varicose non esiste un metodo per poter prevenire completamente il loro sviluppo. Si possono adottare, tuttavia, alcuni comportamenti che possono contribuire a migliorare la circolazione venosa e il tono muscolare, con una conseguente riduzione del rischio di sviluppare questa patologia:

svolgere abitualmente attività fisica

evitare condizioni come sovrappeso e obesità

consumare un alto contenuto di fibre ed evitare cibi troppo salati

evitare l’eccessivo uso di tacchi alti

evitare di stare seduti o in piedi per troppe ore consecutive

 

Artrosi della caviglia

Artrosi della caviglia

 

L’artrosi della caviglia è un processo degenerativo a carico della cartilagine articolare della caviglia. Questa patologia interessa in particolare le persone anziane. Con l’avanzare dell’età la cartilagine tende a degenerarsi. Nonostante queste considerazioni è possibile l’insorgere di artrosi della caviglia anche in seguito ad episodi traumatici (ad esempio una frattura)

Quali sono le cause dell’artrosi della caviglia?

L’artrosi alla caviglia può insorgere per il naturale invecchiamento della cartilagine o come conseguenza di un trauma (una frattura della caviglia) o di altre patologie, come per esempio quelle reumatiche.

Tra i fattori di rischio che possono agevolare l’insorgenza della patologia:

-il sovrappeso, che costringe l’articolazione della caviglia a uno sforzo aggiuntivo.

-il cattivo allineamento dell’articolazione, che causa un’eccessiva usura della cartilagine.

-la ripetizione di traumi o microtraumi dovuti – per esempio – all’attività sportiva o lavorativa, con conseguente usura della cartilagine.

Quali sono i sintomi dell’artrosi della caviglia?

Dolore, rigidità e tumefazione della caviglia sono i sintomi principali dell’artrosi. Il dolore, inizialmente presente durante il movimento, può poi colpire anche a riposo. In alcuni casi può essere avvertita una sensazione di instabilità articolare, come se la caviglia non fosse più in grado di sopportare il peso corporeo.

 

Come prevenire l’artrosi della caviglia?

Per limitare il rischio di insorgenza di artrosi alla caviglia è consigliabile:

-evitare traumi, come le fratture, che predispongono la caviglia a un processo artrosico.

-evitare sforzi aggiuntivi a carico dell’articolazione causati ad esempio da sovrappeso ed obesità.

Artrosi dell’anca

Artrosi dell’anca

 

Quando la cartilagine che ricopre l’articolazione coxo-femorale ( il punto in cui femore si articola con l’acetabolo, la cavità dell’anca destinata ad accogliere la testa del femore) si degenera, insorge l’artrosi dell’anca. Questo processo degenerativo può avere diverse cause e comporta dolore e difficoltà nei movimenti con conseguenze invalidanti.

 

Che cos’è l’artrosi dell’anca?

Per artrosi dell’anca si intende l’infiammazione della cartilagine che ricopre l’articolazione dell’anca, questa infiammazione è spesso dovuta al deterioramento cartilagineo. La cartilagine permette lo scorrimento delle ossa l’una contro l’altra e funge da cuscinetto, evitando gli attriti.

 

Quali sono le cause dell’artrosi dell’anca?

La più comune e frequente è l’artrosi in senso lato, che comprende sia le forme di probabile origine meccanica (conseguenti ad alterazioni strutturali congenite), sia le forme degenerative (coxartrosi idiopatica), sia le forme acquisite (necrosi ischemiche, traumi, osteoporosi, ecc.). Altre frequenti cause sono le artriti infiammatorie (artrite reumatoide, psoriasica, ecc.).

 

Quali sono i sintomi dell’artrosi dell’anca?

L’artrosi dell’anca si manifesta con dolore a livello dell’inguine che spesso raggiunge anche ginocchio e anca. Tale dolore deriva dalla mancata congruenza delle superfici articolari che degenera il tessuto della cartilagine. Il dolore cronico all’articolazione dell’anca può invalidare persone di ogni età, rendendo difficile e doloroso anche semplicemente camminare.

Grazie ai moderni trattamenti un paziente con artrosi dell’anca può aspirare ad una normale attività dell’articolazione senza dolore.

Prevenzione

Avere un peso nella norma, assumere posture corrette e non esercitare sovraccarico sull’articolazione sono strategie che riducono il rischio di artrosi dell’anca. Un’alimentazione ricca di vitamine, omega 3 e minerali e povera di alcol e di cibi di origine animale aiuta a mantenere in salute tutte le articolazioni.

 

Diagnosi

La diagnosi dell’artrosi dell’anca si effettua tramite:

-esame clinico

-esame radiografico

 

Trattamenti

I trattamenti chirurgici includono l’impianto di protesi all’articolazione dell’anca.

 

Artrosi dell’anca nel giovane

Artrosi dell’anca nel giovane

 

L’artrosi dell’anca è una patologia legata alla degenerazione della cartilagine  dell’articolazione coxo-femorale. Questa articolazione risiede nel punto in cui il femore si articola con l’acetabolo, la cavità dell’anca che accoglie la testa del femore. Questo processo degenerativo può avere diverse cause e comporta dolore e difficoltà nei movimenti con conseguenze invalidanti.

Fino a pochi anni fa l’artrosi dell’anca veniva considerata una patologia tipica della terza età, mentre negli ultimi anni l’avvento di nuove tecniche diagnostiche e la disponibilità di trattamenti innovativi hanno modificato la percezione di questa malattia e la possibilità che colpisca anche in età precoce.

Che cos’è l’artrosi dell’anca nel giovane?

L’articolazione dell’anca è ricoperta da una cartilagine, un tessuto soffice e liscio che consente alle ossa di scorrere l’una contro l’altra senza generare attriti, agendo come una sorta di cuscinetto. Quando questo tessuto si deteriora si può sviluppare un’infiammazione che prende il nome di artrosi dell’anca.

Quali sono le cause dell’artrosi dell’anca nel giovane?

L’artrosi dell’anca nel giovane è sempre stata ben documentata. Esistono diverse condizioni degenerative dell’articolazione coxofemorale che colpiscono i pazienti più giovani.

Le più frequenti sono:

-la displasia dell’anca nel bambino.

-la malattia di Perthes.

-l’impingement o conflitto femoro-acetabolare. I due componenti dell’articolazione sono incompatibili e urtano l’uno contro l’altro. Colpisce soprattutto giovani adulti di sesso maschile che praticano sport ( i movimenti ripetitivi accentuano il problema).

-l’osteonecrosi o necrosci ischemica, dovuta alla riduzione del flusso di sangue alla testa del femore.

-traumi, infezioni, tumori.

 

Quali sono i sintomi dell’artrosi dell’anca nel giovane?

Il sintomo principale dell’artrosi dell’anca è un dolore localizzato a livello dell’inguine che spesso si estende anche al ginocchio e all’anca. Nelle fasi iniziali del disturbo può comparire solo dopo un’attività fisica prolungata, ma con il progredire del danno all’articolazione si fa vivo anche dopo un’attività fisica leggera e, a volte, anche durante la notte.

 

Come prevenire l’artrosi dell’anca nel giovane?

Per ridurre al minimo il rischio di artrosi dell’anca è importante evitare il sovrappeso, l’assunzione di posture scorrette e il carico eccessivo e ripetuto sull’articolazione.  Un’alimentazione equilibrata, ricca di vitamine, omega 3 e minerali e povera di alcol e di cibi di origine animale è sempre consigliata poiché aiuta a mantenere in salute tutte le articolazioni.

 

Diagnosi

Nel caso in cui i sintomi riportati dal paziente portino a sospettare la presenza di un’artrosi all’anca il medico potrebbe decidere di confermare la diagnosi attraverso una radiografia.

In alcuni rari casi potrebbero essere prescritte analisi aggiuntive come:

-esami del sangue

-esami del fluido presente nelle articolazioni

-risonanza magnetica

 

Trattamenti

In genere non si procede subito in modo invasivo. Le prime fasi del trattamento dell’artrosi all’anca possono includere:

-l’assunzione di farmaci antinfiammatori

-la fisioterapia

-l’uso di stampelle quando bisogna camminare a lungo

Il trattamento chirurgico conservativo, possibile quando la degenerazione è modesta, mira a stabilizzare l’articolazione e a ridurre il sovraccarico sulla superficie.

L’artroscopia è una tecnica sempre più diffusa che permette sia una valutazione diagnostica dell’entità della patologia e sia la possibilità di intervenire, sul femore e/o sull’acetabolo, per risolvere chirurgicamente i conflitti che producono il dolore.

In alcuni rari e ben selezionati casi è preferibile optare per una correzione a cielo aperto del conflitto. Tale soluzione è certamente più invasiva dell’artroscopia, ma può rendersi necessaria in alcune situazioni.

La sostituzione con protesi totale d’anca rappresenta l’opzione limite nel caso di giovani pazienti, a cui si ricorre quando esistono controindicazioni alle procedure conservative o queste non abbiano avuto successo.

Borsite

Borsite

 

Articolazioni e altre parti anatomiche sono protette dalle “borse” piccole sacche piene di liquido. Si trovano tra ossa e tendini ma anche tra tendini e muscoli. La loro funzione è quella di ammortizzare, rendendo il movimento fluido e proteggendo le strutture corporee. Senza queste sacche le strutture del nostro corpo andrebbero incontro ad usura e traumi, generando forti dolori ed infiammazioni.

Quando il liquido all’interno delle borse (detto liquido sinoviale) si infiamma, si genera una condizione chiamata borsite con sintomi che limitano o rendono impossibile il movimento.Le borse più esposte al rischio di infiammazione sono quelle della spalla, del gomito, del ginocchio e dell’anca.

Che cos’è la borsite?

Le borsiti si dividono in borsiti infiammatorie ed emorragiche. Le prime consistono in uno stato infiammatorio di questi piccoli sacchetti ripieni di liquido, causato da movimenti ripetuti, che li sottopongono a sollecitazioni e sfregamenti. Nel primo tipo di borsiti si annoverano anche le borsiti causate dal deposito di cristalli di urea (in pazienti affetti da iperuricemia) o in seguito a una infezione virale o più di frequente batterica (in tal caso si deve parlare più propriamente di borsite settica). Nel secondo caso, generalmente a seguito di trauma, si determina uno stravaso di sangue per rottura di vasi, con conseguente raccolta ematica all’interno della borsa stessa.

 

Quasi sono le cause della borsite?

Le cause della borsite possono essere diverse:

-stress meccanici, causati da movimenti ripetuti, sfregamento, attrito;

-patologie sistemiche, come artrite reumatoide o gotta, che possono interferire con la composizione del liquido sinoviale;

-infezioni batteriche o virali che possono attaccare le borse;

-traumi, come cadute e incidenti in cui la pressione violenta esercitata sulle borse ne può provocare la rottura o l’irritazione.

-l’invecchiamento e lavori o hobby usuranti che prevedono sempre lo stesso movimento (ad esempio musicisti ed artigiani)

 

Quali sono i sintomi della borsite?

I sintomi della borsite sono:

-dolore amplificato dal movimento o dalla pressione;

-arrossamento e gonfiore;

-presenza di lividi (ecchimosi o ematomi) che corrispondono a piccoli versamenti di sangue;

-eruzioni cutanee;

-febbre (in caso di infezione o importante versamento di sangue)

 

Come si previene la borsite?

La prevenzione della borsite è indispensabile soprattutto per quei pazienti che ne hanno già sofferto. Per evitare che il problema si presenti nuovamente è necessario:

-evitare la pressione sui gomiti quando ci si appoggia alla scrivania;

-usare delle imbottiture specifiche per proteggere le ginocchia e piegare le gambe quando ci si alza o si solleva un peso, specie in corso di attività lavorative ripetute e pesanti;

-evitare sforzi eccessivi o di sollevare carichi troppo pesanti;

-correre su superfici adeguate;

-riscaldare sempre i muscoli prima di ogni esercizio fisico e dello sport, allenare il corpo all’equilibrio e al mantenimento di una corretta postura;

-non fare movimenti ripetuti o tenere la stessa posizione troppo a lungo;

-cercare di evitare il sovrappeso corporeo;

 

Se la causa della borsite non è apparentemente riconducibile a una causa traumatica, è utile rivolgersi al medico per ricercare eventuale patologia correlata (es. gotta, artrite reumatoide, etc).

 

Diagnosi

Per una diagnosi di borsite è generalmente sufficiente una visita specialista. In ogni caso è indicato approfondire con ulteriori indagini, di tipo strumentale:

-radiografie, per verificare o escludere la presenza di fratture o alterazioni di altra natura a livello dell’osso;

-ecografia, di fondamentale importanza per confermare la natura e il contenuto della borsa, così, come per valutare il coinvolgimento di altre strutture adiacenti interessate dall’infiammazione.

-Risonanza Magnetica Nucleare, nei casi in cui gli esami precedenti non siano stati in grado di chiarire il quesito diagnostico.

-esami del sangue ed eventualmente analisi del liquido sinoviale, per chiarire la causa della borsite, composizione del liquido e la presenza di eventuali agenti patogeni responsabili dell’infezione.

 

Trattamenti

Il trattamento della borsite cambia in funzione della severità del quadro clinico e la presenza di eventuali complicazioni. Se la borsite è di grado leggero è solitamente sufficiente: – l’uso della borsa del ghiaccio – osservare un periodo di riposo – l’assunzione di un farmaco antiinfiammatorio per ridurre flogosi e dolore e di una benda elastica compressiva per contenere il disagio provocato dai movimenti.

In alcuni casi può essere necessario procedere all’aspirazione del liquido sinoviale contenuto nella borsa infiammata, ed eventualmente all’iniezione (infiltrazione) di corticosteroidi direttamente nella borsa, in modo da ridurre il rischio che si formi nuovamente.

Gli antibiotici sono necessari, se l’esame clinico e gli esami del sangue indicano la presenza di un’infezione oppure, in casi specifici, per prevenirne la comparsa.

In associazione al controllo dell’infiammazione e dolore con i farmaci, la terapia della borsite può prevedere anche applicazioni di terapie fisiche locali (come per esempio laserterapia, crioterapia o ultrasuoni).

In taluni casi più severi, specie se recidivanti o di difficile risoluzione, può essere indicata l’asportazione chirurgica della borsa infiammata.

È fondamentale, nei casi in cui non vi sia una chiara origine traumatica (diretta o da trauma ripetuto), escludere eventuali patologie concomitanti da curare (es. gotta o artrite reumatoide).

 

Capsulite adesiva della spalla (o spalla congelata)

Capsulite adesiva della spalla (o spalla congelata)

 

La capsulite adesiva della spalla, volgarmente detta spalla congelata, è una patologia infiammatoria che causa la perdita di mobilità dell’articolazione omero scapolare. È una patologia in cui tipicamente i sintomi si presentano in maniera lieve e peggiorano gradualmente nel tempo.

 

Che cos’è la capsulite adesiva della spalla?

La capsulite adesiva è una patologia che richiede lunghi tempi di recupero. Comporta una grande limitazione nei movimenti della spalla e il dolore costante, che generalmente peggiora durante la notte, rende difficili quasi tutti i movimenti.

I pazienti con questa patologia sviluppano spesso anche disturbi del sonno.

 

Quali sono le cause della capsulite adesiva della spalla?

L’articolazione fra spalla e omero è composta di ossa, tendini e legamenti, che sono compresi in una capsula di tessuto connettivo. Quando questa capsula si restringe e si infiamma fino a limitare i movimenti dell’articolazione, si verifica la capsulite adesiva.

La capsulite adesiva è più frequente nel sesso femminile, in un’età compresa fra i 35 e i 50 anni e si associa spesso a malattie metaboliche (diabete o iper / ipotoroidismo). Si ipotizza una sua correlazione anche con le patologie autoimmuni, ma i ricercatori non hanno risposte chiare in merito alla sua insorgenza in alcuni soggetti piuttosto che in altri.

 

Quali sono i sintomi della capsulite adesiva della spalla?

La capsulite adesiva si manifesta solitamente in maniera progressiva.

Nella prima fase, i movimenti dell’articolazione sono molto dolorosi, ma possibili, mentre il raggio dei movimenti si riduce gradualmente. Questa fase dura in media fra i due e i nove mesi.

La seconda fase è caratterizzata da una leggera riduzione del dolore, accompagnata da una notevole diminuzione del raggio di movimenti possibili, per un periodo fra i quattro e i nove mesi.

La fase successiva, detta di “scongelamento”, vede un nuovo ampliamento delle possibilità di movimento dell’articolazione, fino al recupero, che può essere totale o solo parziale. Questa fase può durare fra i sei mesi e i due anni.

 

Come si può prevenire la capsulite adesiva della spalla?

A causa della scarsa conoscenza dei fattori di rischio, non è possibile creare una forma preventiva della stessa.

 

Diagnosi

L’esame fisico è solitamente sufficiente per effettuare la diagnosi di capsulite adesiva. Il medico verifica la mobilità dell’articolazione e la possibilità di compiere determinati movimenti. La risonanza magnetica e la radiografia possono essere utili a escludere che i sintomi derivino da condizioni differenti.

 

Trattamenti

I trattamenti per questa patologia si concentrano sulla riduzione del dolore e sul recupero della funzionalità dell’articolazione. Lo specialista spesso prescrive farmaci antinfiammatori e antidolorifici.

Purtroppo si tratta di una patologia i cui tempi di recupero sono lunghi e per la quale è difficile valutare pro e contro dei vari trattamenti.

Le opzioni terapeutiche sono differenti:

-terapia farmacologica associata a fisioterapia.

-iniezioni di corticosteroidi, al fine di alleviare il dolore e migliorare la mobilità articolare.

-intervento chirurgico in artroscopia, nel caso l’ortopedico giudichi che la rimozione di parte del tessuto capsulare possa essere d’aiuto.

 

Condromalacia della rotula

Condromalacia della rotula

 

Quando la cartilagine su cui la rotula scorre diventa ruvida e non permette la flessione del ginocchio, insorge la condromalacia della rotula. Caratterizzata da forte dolore e infiammazione a carico dell’articolazione del ginocchio è causata da diversi fattori.

Che cos’è la condromalacia della rotula?

La condromalacia della rotula può anche colpire entrambe le ginocchia ed è caratteristica dei soggetti che corrono su lunghe distanze (l’attività sportiva prolungata può determinare l’usura di questa cartilagine), degli adolescenti (fattori ormonali possono avere importanza in questa affezione) e può interessare le persone sovrappeso o obese (l’eccessivo peso corporeo non giova a questo disturbo). È una patologia che può manifestarsi a diversi livelli di gravità.

 

Quali sono le cause della condromalacia della rotula?

La condromalacia della rotula può essere causata da:

-traumi o da sovraccarico (sono le cause più frequenti)

-anomalie nella forma e/o nella posizione della rotula

-fattori ormonali (questa condizione si manifesta spesso nelle ragazze in fase di sviluppo, per poi risolversi spontaneamente)

 

Quali sono i sintomi della condromalacia della rotula?

La sintomatologia della condromalacia della rotula è molto variabile. Nei casi meno gravi questo disturbo può essere asintomatico, in altri casi la sintomatologia può presentarsi a riposo, in altre situazioni ancora può insorgere quando il ginocchio è sotto sforzo. Alcuni sintomi, tuttavia, è più probabile che si presentino sui soggetti che soffrono di questo disturbo, tra cui:

-presenza di dolore al di sotto o ai lati della rotula, che aumenta quando si sale o si scende le scale

-percezione di un rumore simile a uno scricchiolio che si manifesta quando, in fase di flessione del ginocchio, la rotula sfrega contro la cartilagine ruvida

-tumefazione del ginocchio interessato

 

Come prevenire la condromalacia della rotula?

Per prevenire l’insorgenza della condromalacia rotulea è consigliabile rinforzare i muscoli delle gambe e soprattutto dei quadricipiti, indispensabili per un buon funzionamento dell’articolazione di tutto il ginocchio. Ecco alcuni consigli:

-effettuare costantemente esercizi di allungamento per tutta la gamba, con particolare attenzione al quadricipite, alla banda ileotibiale (fascio muscolare che si trova sulla parte esterna della coscia) e al gluteo

-ricordarsi di fare stretching prima di correre e di intraprendere qualsiasi attività sportiva

-usare scarpe adatte all’attività che si sta svolgendo

-seguire un programma d’allenamento graduale