Trabeculectomia

Trabeculectomia

 

Si tratta di un intervento chirurgico per la cura del glaucoma, da eseguire quando i trattamenti farmacologici non siano più sufficienti o in caso non siano tollerati dal paziente.

 

Che cos’è la trabeculectomia?

 

E’ un intervento filtrante che crea un “bypass” tra l’interno e la parte esterna dell’occhio (sotto la congiuntiva, coperta dalla palpebra superiore), in modo tale da far defluire negli spazi sottocongiuntivali l’umore acqueo in eccesso all’interno dell’occhio e diminuirne la pressione. Questo permette di limitare la progressione del glaucoma.

 

In Humanitas è possibile intervenire con una variante della trabeculectomia semplificata grazie all’utilizzo di un impianto microscopico valvolare detto “Ex-PRESS®”.

 

Come funziona la trabeculectomia?

 

L’intervento viene eseguito in anestesia locale e normalmente si richiede una notte in ospedale per osservazione e controlli al mattino successivo.

 

Quali sono i vantaggi della trabeculectomia?

 

La scelta di intervenire con la trabeculectomia dipende dallo stadio e della progressione della malattia.

 

Il trattamento consente di limitare la progressione del glaucoma e consente al paziente di migliorare la qualità della propria vita, sospendendo la terapia farmacologica con colliri.

 

 

Quali pazienti possono effettuare la trabeculectomia?

 

L’intervento è adatto a quasi tutti i pazienti, con l’eccezione dei casi di glaucoma allo stadio terminale, in quanto non porterebbe alcun beneficio.

 

La trabeculectomia è dolorosa o pericolosa?

 

L’intervento non provoca dolore in quanto eseguito in anestesia locale. Dopo l’effetto dell’anestesia, il paziente potrebbe avvertire poco fastidio, correlato ai punti di sutura.

 

 

Sono previste norme di preparazione all’intervento?

 

Il paziente deve instillare colliri prescritti dai medici del Centro Glaucoma programmati nelle visite precedenti. Il giorno prima dell’intervento si deve presenta per la verifica della pressione oculare e il controllo generale.

 

Follow up

 

Nei primi due mesi le visite di controllo sono settimanali. A partire dal terzo mese vengono riprogrammanti controlli a distanza variabile in base al decorso postoperatorio.

 

Trapianti di cornea

Trapianti di cornea

 

Quando la cornea perde in maniera irreversibile la sua trasparenza o diventa fortemente irregolare o ancora rischia di perforarsi e le terapie meno invasive non risolvono il problema, è necessario sostituirla mediante l’intervento chirurgico di trapianto di cornea, detto anche cheratoplastica.

 

Cosa sono i trapianti di cornea?

 

L’intervento consiste nella sostituzione della cornea malata o di una sua parte con quella proveniente da un donatore. Diversamente dal passato recente, quando l’unico intervento disponibile consisteva sempre nella sostituzione del tessuto a tutto spessore, oggi possiamo decidere di sostituire soltanto la parte di tessuto malato, lasciando intatti i rimanenti strati della cornea. Ciò ha permesso di ridurre l’aggressività chirurgica, i rischi di rigetto ed accelerare il recupero funzionale. A seconda dello strato corneale compromesso (stroma, endotelio) possiamo pianificare un trapianto selettivo del tessuto patologico, lamellare anteriore profondo (DALK – Deep Anterior Lamellar Keratoplasty), in cui viene sostituita la sola porzione anteriore della cornea senza perforare il bulbo oculare oppure un trapianto di solo endotelio corneale (DSAEK – Descemet Stripping Automated Endothelial Keratoplasty) lasciando intatta la porzione più superficiale sana.

 

Il trapianto di cornea a tutto spessore (PK o cheratoplastica perforante) viene tuttora riservato a tutti i casi in cui la compromissione corneale è intervenuta a tutti i livelli o ha determinato danni tissutali che non rendono praticabili le altre due tecniche descritte. In casi estremi può avere come unico scopo quello di evitare una perforazione imminente o porvi rimedio in urgenza al fine di eliminare le soluzioni di continuità tra le strutture oculari interne ed il mondo esterno (trapianto a scopo tettonico).

 

La scelta della tecnica indicata spetta al medico oculista dopo una valutazione complessiva del quadro clinico. Le cornee donate vengono prelevate da cadavere, accuratamente selezionate, conservate in terreno di coltura ed inviate all’ospedale che ne faccia richiesta da parte delle BANCHE DELLE CORNEE, che certificano la qualità del tessuto inviato. Ciò consente di pianificare con anticipo gli interventi e garantire una elevata qualità dei tessuti da trapiantare.

Il trapianto di cornea ha lo scopo prioritario di ripristinare la anatomia corneale e si pone come obbiettivo quello di migliorare la funzione visiva alterata dalla ridotta trasparenza e/o regolarità del tessuto.
Come funzionano i trapianti di cornea?

 

L’intervento è programmabile con discreto anticipo anche se la pianificazione dipende dalla disponibilità di tessuti da parte delle banche delle cornee. L’intervento viene effettuato in anestesia locale o generale, su indicazione del chirurgo e degli anestesisti, con ricovero. Il paziente viene sottoposto a verifica dell’assenza di controindicazioni nell’imminenza dell’intervento. Una volta effettuato l’intervento pianificato, in assenza di complicanze, è prevista una degenza variabile da uno a tre giorni, il cui scopo è quello di verificare in ambiente protetto ed in condizioni di sicurezza il decorso post-operatorio.

 

Quali sono i vantaggi dei trapianti di cornea?

 

Per quanto standardizzata e seguita da soddisfacenti risultati, l’operazione di trapianto di cornea non sfugge alla regola generale secondo la quale non esiste una chirurgia senza rischi. Non è dunque possibile garantire in modo formale il successo dell’intervento né l’assenza di complicanze, la cui incidenza è condizionata anche dal tipo e dal grado di evoluzione della patologia. L’indicazione a trapianto di cornea per queste ragioni deve venire posta in assenza di terapia mediche o chirurgiche meno invasive altrettanto efficaci.

 

I trapianti di cornea sono dolorosi o pericolosi?

 

L’intervento non è doloroso e viene per lo più eseguito in anestesia generale. In seguito all’intervento l’occhio operato è più o meno arrossato e dolente si possono avvertire sensazioni di corpo estraneo, bruciore, fastidio, lacrimazione, fluttuazioni visive, aloni, che tendono poi a ridursi progressivamente. Trattandosi di un intervento chirurgico, sono possibili complicanze prima, durante e dopo l’intervento. Esiste un elevato rischio di infezione, che solo una accuratissima attenzione all’igiene personale e oculare può ridurre drasticamente o eliminare.

 

Il trapianto di cornea comporta un rischio di rigetto per tutta la vita. Tale fenomeno, la cui frequenza si riduce sensibilmente dopo i primi 5 anni può comportare una grave e irreversibile infiammazione della superficie oculare e in assenza di una terapia tempestiva o per la gravità della sua manifestazione, il ricorso a nuovo trapianto di cornea.

 

Quali pazienti possono effettuare i trapianti di cornea?

 

Possono sottoporsi a trapianto di cornea pazienti di tutte le età, affetti da patologie corneali che non consentano opportunità terapeutiche meno invasive di pari efficacia e che abbiano ottenuto il consenso anestesiologico alla chirurgia.

 

Follow up

 

Controlli postoperatori, inizialmente più frequenti, sono necessari per un periodo di tempo prolungato. Se i controlli non vengono effettuati secondo le prescrizioni il risultato dell’intervento può essere compromesso. Dopo l’intervento è spesso presente un astigmatismo residuo, al fine di ridurre il quale abbiamo messo a punto una nuova metodica di tensionamento della sutura sotto guida topografica intraoperatoria che riduce di molto l’astigmatismo post-operatorio fin dai primi giorni dopo l’intervento.

 

A circa 18 mesi dall’intervento si procede alla rimozione della sutura, in seguito alla quale il riassestamento della cornea può causare la comparsa di difetti visivi quali astigmatismo, miopia o ipermetropia non prevedibili.

Il miglioramento visivo non è immediato., ma vviene lentamente nell’arco di diverse settimane ed è legato all’attecchimento ed alla vitalità della cornea trapiantata, alla sua trasparenza, alla presenza di astigmatismo residuo e dalle condizioni di salute degli altri distretti (retina, cristallino ecc.) dell’occhio operato. La presenza di altre lesioni dell’occhio, infatti, può limitare il recupero della vista.

 

Sono previste norme di preparazione all’intervento?

 

In preparazione all’intervento è necessario verificare la assenza di concomitanti patologie e/o infezioni oculari e in altri distretti corporei che elevino il rischio chirurgico. Il paziente deve presentarsi la mattina dell’intervento a digiuno.

Trattamento cataratta

Trattamento cataratta

 

L’unico trattamento attualmente disponibile per la cura della cataratta è l’intervento chirurgico con microscopio operatorio.

 

Che cos’è?

 

L’intervento consiste nell’asportazione della parte di cristallino diventata opaca e nell’impianto di una lente sostitutiva in materiale plastico (cristallino artificiale o IOL, Intra Ocular Lens). Nella maggior parte dei casi non sono necessari punti di sutura.

 

E’ possibile utilizzare anche lenti con caratteristiche particolari:

 

multifocali, ossia capaci di mettere a fuoco a due distanze, una da lontano e una da vicino

toriche, che consentono di correggere l’astigmatismo, difetto visivo congenito per cui gli oggetti appaiono distorti e sfuocati, sia da lontano sia da vicino

asferiche, la cui forma più curva nel centro e piatta ai bordi, compensando i naturali difetti della cornea, permette una visione migliore in qualsiasi situazione migliorando la sensibilità al contrasto

filtrate, che grazie a speciali pigmenti assorbono e filtrano i raggi dannosi per la retina, tra i quali quelli solari ultravioletti.

 

L’intervento richiede un’anestesia locale con apposito collirio e viene effettuato in sale operatorie appositamente attrezzate per la day surgery.

 

 

Quali pazienti possono effettuare il trattamento della cataratta?

 

La maggior parte degli oculisti consiglia l’intervento chirurgico quando la cataratta inizia a compromettere la qualità della vita o a interferire con le normali attività quotidiane, come leggere o guidare di notte.

 

Il trattamento della cataratta è doloroso o pericoloso?

 

Oggi l’intervento di cataratta non è pericoloso, è indolore, è sufficiente  l’anestesia locale con gocce ed è di breve durata.

E’ effettuato sotto microscopio operatorio e richiede una sufficiente collaborazione del paziente. E’ sempre consigliabile non rinviare eccessivamente il momento dell’intervento per evitare che la cataratta assuma una consistenza troppo elevata.

 

 

Sono previste norme di preparazione al trattamento?

 

Il paziente deve sospendere l’assunzione di farmaci controindicati e instillare regolarmente i colliri prescritti.

E’ necessario presentarsi con il viso perfettamente lavato, senza trucco, accompagnati. E’ richiesta la presenza domiciliare di una persona valida e responsabile almeno per la prima notte.

 

Follow up

 

L’occhio operato deve restare coperto per un giorno. Dopo alcuni giorni si ha già un recupero visivo soddisfacente che dopo 10-15 giorni può definirsi completo e permette eventuali correzioni dei difetti visivi residui.

In taluni casi, a distanza di mesi o anni, è possibile l’opacizzazione della capsula in cui è inserito il cristallino artificiale (la cataratta secondaria): un veloce trattamento ambulatoriale con uno specifico laser (YAG laser) risolve il problema definitivamente.

 

Vitrectomia

Vitrectomia

 

La vitrectomia è l’intervento chirurgico che permette di trattare il distacco della retina rimuovendo il corpo vitreo, ovvero il gel trasparente localizzato tra l’iride e la retina.

 

Cos’è la vitrectomia?

 

La vitrectomia è uno degli interventi chirurgici che permettono di trattare il distacco della retina quando coinvolge un’area significativa della retina stessa. Il chirurgo procede alla sostituzione del corpo vitreo, il quale viene aspirato con strumenti adatti alla microchirurgia e sostituito con una soluzione salina. Al termine del trattamento, della durata di due o tre ore, entrambi gli occhi vengono bendati.

 

Immediatamente prima dell’intervento le pupille devono essere dilatate.

La vitrectomia permette di recuperare la vista in due casi su tre, ma l’intervento è associato al rischio di complicazioni come sanguinamento, cataratta e endoftalmite.

 

La fase post-operatoria può essere accompagnata da un dolore che può essere controllato con farmaci analgesici.

 

Quali pazienti possono effettuare la vitrectomia?

 

La vitrectomia è indicata nei pazienti affetti da retinopatia diabetica, foro maculare, membrana epiretinica e infezioni o traumi oculari.

 

 

Sono previste norme di preparazione all’intervento?

 

Prima dell’intervento il chirurgo può richiedere un’ampia gamma di analisi di entrambi gli occhi, incluse Tac, risonanze magnetiche ed ecografie.

 

Follow up

 

Dopo l’intervento devono essere utilizzati colliri e antibiotici. Inoltre è indispensabile tenere gli occhi a riposo fino a guarigione completata. In assenza di complicanze il paziente deve sottoporsi a controlli a 1, 7, 21, 60, 120 e 180 giorni dall’intervento.

 

Vitrectomia mininvasiva

Vitrectomia mininvasiva

 

La vitrectomia è una chirurgia del segmento posteriore del bulbo oculare (cavità vitreale) che consiste nell’asportazione del gel vitreale.  In origine la tecnica comportava il taglio e l’apertura della congiuntiva e l’apertura della sclera per entrare nella cavità vitreale; in seguito congiuntiva e sclera venivano suturati con punti riassorbibili.  Grazie allo sviluppo tecnologico degli strumenti di calibro ridotto, la vitrectomia mininvasiva mantiene le stesse capacità e consente la creazione di incisioni autosigillanti di 0,5 millimetri che non necessitano suture.

 

Che cos’è la vitrectomia mininvasiva?

 

Le indicazioni alla vitrectomia mininvasiva sono diverse, e oggi praticamente tutti gli interventi del segmento posteriore oculare possono essere eseguiti secondo questa tecnica.

Nell’applicazione di questa evoluzione tecnologica i nostri chirurghi della retina sono pionieri in Italia.

 

Questa tecnica viene utilizzata nei seguenti  casi:

 

-distacco della retina, semplice o complicato da proliferazioni

-retinopatia diabetica con o senza distacco di retina

-membrana epirretinica o Pucker maculare

-foro maculare completo o pseudoforo

-opacità vitreale legata al sanguinamento o problemi infiammatori

-uveite

-come strumento per diagnosticare malattie rare del segmento posteriore

 

Quali sono i vantaggi e gli svantaggi della vitrectomia mininvasiva?

 

L’intervento è eseguito attraverso incisioni molto piccole che non hanno bisogno di suture. Ne consegue un recupero funzionale più veloce con minore infiammazione intraoculare. I pazienti inoltre lamentano meno disturbi rispetto alla chirurgia tradizionale. La sicurezza della tecnica è stata validata in diversi studi clinici, dimostrando di avere un profilo di sicurezza uguale o superiore alla tecnica tradizionale.

La vitrectomia mininvasiva consiste anche in un cambio del tipo di anestesia, essendo stata sostituita l’anestesia generale con quella loco-regionale.  Più del 90% delle vitrectomie nel nostro centro sono eseguite in anestesia loco-regionale, la quale blocca i movimenti e la sensibilità del bulbo oculare e che insieme ad una accurata sedazione del paziente rende l’intervento molto più tollerabile per lo stesso. Ciò ha migliorato il comfort del paziente ed allo stesso tempo si sono ridotti i potenziali e gravi rischi di una anestesia generale, limitando anche il tempo di ricovero ospedaliero.

 

 

Sono previste norme di preparazione all’intervento?

 

Partendo da una diagnosi accurata i pazienti con patologia chirurgica della retina vengono seguiti negli ambulatori specifici a disposizione dei nostri chirurghi.

Quando viene data l’autorizzazione all’intervento il paziente viene informato del tipo di operazione a cui verrà sottoposto per risolvere il suo problema, e se l’intervento chirurgico sarà in regime di day hospital.

Il paziente dovrà attendere la chiamata delle segretarie della Unità Operativa di Oculistica che programmeranno tutti gli esami di pre-ricovero necessari all’intervento (esami del sangue, visita dall’anestesista ed eventualmente del cardiologo o diabetologo). Al termine sarà decisa una data per l’intervento.

Le terapie dopo l’intervento sono decise dal chirurgo in base al tipo di chirurgia eseguita. Come regola generale tutti i pazienti dovranno fare una copertura antibiotica orale per i primi quattro giorni post-intervento ad istilleranno dei colliri antibiotici-antinfiammatori per circa un mese dopo l’intervento.

Il chirurgo talora utilizzerà tamponanti endoculari. Nel caso sia utilizzato gas oppure olio di silicone il paziente dovrà mantenere una postura particolare durante i primi giorni successivi l’intervento secondo le indicazioni dal chirurgo, per aiutare la corretta guarigione della retina.

 

Follow-up

 

Una volta eseguito l’intervento tutti i pazienti sono visitati il giorno stesso, ad una settimana, ad un mese ed al terzo mese  dall’intervento negli ambulatori specifici delle patologie vitreo-retiniche per permettere che il percorso di cura sia strettamente seguito dagli stessi chirurgi vitreo-retinici.

Chirurgia correttiva dell’anca a cielo aperto nel giovane

Chirurgia correttiva dell’anca a cielo aperto nel giovane

 

La chirurgia correttiva dell’anca a cielo aperto è una procedura di intervento conservativo alla quale si ricorre quando i difetti dell’articolazione coxofemorale sono particolarmente gravi o, per la loro natura, non possono essere trattati in artroscopia con la stessa probabilità di successo.

Che cos’è la chirurgia correttiva dell’anca a cielo aperto nel giovane?

La chirurgica correttiva a cielo aperto è una tecnica alternativa all’artroscopia perché prevede un accesso chirurgico più ampio. È quindi una tecnica più invasiva che, tuttavia, si rende necessaria quando i difetti dell’articolazione coxofemorale hanno una particolare complessità.

Come funziona la chirurgia correttiva dell’anca a cielo aperto nel giovane?

La chirurgica correttiva a cielo aperto viene eseguita con diverse tecniche. Generalmente viene creato un accesso chirurgico eseguendo un taglio che preservi il più possibile i muscoli. Successivamente si procede alle manovre ossee che servono a correggere la deformità specifica del paziente, sia essa una displasia, un conflitto o qualunque altra deformità congenita o acquisita. L’intervento viene eseguito cercando di danneggiare il meno possibile i vasi sanguigni che nutrono l’osso.

Quali sono i vantaggi della chirurgia correttiva dell’anca a cielo aperto nel giovane?

La chirurgica correttiva a cielo aperto è una tecnica che consente una più ampia capacità correttiva e maggiore precisione, permettendo al chirurgo di visualizzare l’articolazione e di operare con maggiore libertà. Per contro il trattamento è più invasivo dell’artroscopia, determina una maggiore perdita di sangue, una ferita più ampia, un tempo di guarigione e di ritorno al movimento più lungo.

Quali pazienti possono effettuare  la chirurgia correttiva dell’anca a cielo aperto nel giovane?

Il paziente candidato alla chirurgica a cielo aperto viene attentamente selezionato in base ad alcuni specifici parametri basati sulla gravita e complessità dei difetti all’articolazione.

La chirurgia correttiva dell’anca a cielo aperto nel giovane è dolorosa o pericolosa?

L’intervento chirurgico a cielo aperto viene eseguito in anestesia generale. Il post-operatorio può essere doloroso e quindi viene impostata una adeguata terapia analgesica importante atta a rendere il dolore controllato e del tutto tollerabile dal paziente. I rischi legati all’intervento chirurgico includono: infezioni, trombosi venosa profonda, emorragia, osteonecrosi (ischemia del tessuto osseo), danni vascolari e neurologici e rischi collegati all’anestesia.

Sono previste norme di preparazione?

È importante continuare a mantenere un’attività fisica costante compatibilmente con il dolore. Circa un mese prima dell’intervento vengono eseguiti tutti gli accertamenti preliminari. In assenza di controindicazioni si procede con il predeposito del sangue, vale a dire con il prelievo in diversi momenti del sangue del paziente per riutilizzarlo al momento dell’operazione.

Una settimana prima dell’intervento viene chiesto di sospendere alcuni farmaci che impediscono la normale coagulazione del sangue, ad esempio l’aspirina.  In vista dell’operazione, è necessario munirsi di vestiti comodi, ad esempio una tuta, calzature con la suola di gomma a tacco basso e stampelle. Il giorno dell’intervento bisogna essere a digiuno dalla mezzanotte precedente. Dopo l’intervento sono necessarie calze elastiche antitrombo.

Follow up

È necessario seguire la profilassi antitrombotica con eparina nei 30-40 giorni successivi l’intervento. Prima dell’intervento il paziente viene istruito sugli esercizi per il recupero articolare e muscolare che verranno riproposti durante la fase di riabilitazione e che in un secondo momento il paziente potrà eseguire da solo a casa.

La rimozione dei punti viene solitamente eseguita dopo due settimane. Al paziente viene indicata la data del primo controllo e successivamente dovrà eseguire una radiografia e una visita ortopedica ogni 1 o 2 anni per verificare la funzionalità dell’articolazione e l’integrità della protesi.

 

Chirurgia protesica del ginocchio

Chirurgia protesica del ginocchio

 

Prima dell’intervento viene studiata la radiografia ed effettuata la pianificazione preoperatoria. In questa fase il chirurgo sceglie in modo definitivo la protesi.

L’intervento viene praticato normalmente in anestesia peridurale ma a seconda dei casi l’anestesista può scegliere una soluzione diversa. La tecnica chirurgica si avvale anche, in casi selezionati, dell’uso del navigatore e della tecnica mini-invasiva, con piccoli tagli cutanei e massimo rispetto dei muscoli.

L’intervento è seguito da una breve degenza in ospedale (in media dieci giorni).

Durante i primi due giorni a letto in posizione supina vengono eseguiti esercizi di mobilizzazione passiva ed attiva. Se necessario il paziente può stare in posizione eretta più precocemente (dopo un giorno).

Nella fase postoperatoria è importante un relativo isolamento del soggetto per evitare il rischio di infezioni: sono quindi utili visite programmate e rare dei parenti.

In seconda-terza giornata si rimuovono i drenaggi ed il paziente inizia la deambulazione assistita con due bastoni canadesi e un carico variabile a seconda delle indicazioni del chirurgo. In casi particolari (ad esempio revisioni o interventi complicati) al paziente non sarà concesso il carico per periodi da programmare con l’equipe. Per la ripresa della deambulazione è importante attenersi scrupolosamente alle indicazioni dei medici e dei terapisti riguardo il carico e l’uso di ausili. Si raccomanda l’uso di scarpe di gomma. Sono sconsigliate le stampelle con appoggio ascellare.

In conclusione, negli ultimi tempi sono stati compiuti notevoli progressi nella comprensione e nel trattamento della patologia artrosica del ginocchio. Siamo ora in grado con terapie mediche, chirurgiche e riabilitative adeguate, di migliorare notevolmente la qualità della vita dei pazienti colpiti da questa patologia ed anche di svolgere una prevenzione nei casi diagnosticati precocemente.

Vedi anche:

Impianto protesi del ginocchio monocompartimentale

Impianto protesi del ginocchio totale

Chirurgia protesica dell’anca

Chirurgia protesica dell’anca

 

La chirurgia protesica dell’anca permette di intervenire nei casi più avanzati di degenerazione dell’articolazione per i quali sono controindicati o non hanno avuto successo i trattamenti conservativi.

Che cos’è la chirurgia protesica dell’anca?

L’intervento di protesi totale d’anca consiste nella sostituzione completa dell’articolazione utilizzando delle protesi in metallo. Attualmente le protesi maggiormente utilizzate sono costruite in lega di titanio, ma possono anche venire cementate all’osso protesi di differenti leghe metalliche.

Il “cuore” della protesi, cioè lo snodo sottoposto al movimento (e quindi all’usura) non è in titanio e può essere composto da diversi materiali: leghe di cromo-cobalto, ceramica, oppure accoppiamenti di questi materiali con il polietilene.

Ad oggi tutte le protesi sono modulari, cioè formate da parti distinte che vengono assemblate al momento per adattarsi meglio all’anatomia del singolo paziente ed evitano, qualora ve ne fosse la necessità, di sostituire tutto l’impianto. In particolare nell’impiantare la protesi in un paziente giovane si mira a evitare l’utilizzo del cemento e si cerca di preservare il più possibile il tessuto osseo, preferendo protesi “a incastro” appositamente progettate.

Un’alternativa alla sostituzione totale consiste nel rivestimento della testa del femore con la protesi senza asportarla. Tale soluzione è però indicata solo in una stretta minoranza di casi.

Nel giovane si pone molta attenzione al posizionamento di protesi di piccole dimensioni, al maniacale approccio nel posizionamento delle componenti per garantire la perfetta riproduzione dei parametri biologici articolari, a ridurre i tempi di usura dell’impianto, e alla scelta di materiali che permettano lunga durata.

Come funziona la chirurgia protesica dell’anca?

Prima dell’intervento viene eseguita e valutata una radiografia per programmare la fase preoperatoria. In questo momento il chirurgo sceglie la protesi.

L’intervento viene praticato in genere in anestesia peridurale, ma in relazione al caso è facoltà dell’anestesista la scelta della soluzione migliore. La tecnica chirurgica si avvale anche dell’approccio mini-invasivo con tagli cutanei piccoli, riducendo al massimo l’impatto sui muscoli.

La via di accesso all’anca è la postero-laterale che ha il vantaggio di risparmiare gli abduttori dell’anca (muscoli piccolo e medio gluteo), ma in alcuni casi particolari il chirurgo si avvale di altre vie di accesso.

L’intervento è seguito da una breve degenza in ospedale (in media 15 giorni): durante i primi due giorni di riposo a letto in posizione supina con cuscino divaricatore fra le gambe vengono eseguiti esercizi di mobilizzazione passiva e attiva. In caso di necessità il paziente può stare in posizione eretta più precocemente (un giorno). È importante nella fase postoperatoria un relativo “isolamento” del paziente per evitare infezioni.

Quali sono i vantaggi della chirurgia protesica dell’anca?

L’impianto di una protesi d’anca è considerata un’alternativa a cui ricorrere quando non sono possibili i trattamenti conservativi o quando questi ultimi non hanno avuto successo. L’affermarsi di materiali tecnologicamente sempre più avanzati e procedure chirurgiche innovative hanno considerevolmente migliorato i risultati di questo tipo di intervento, i cui punti deboli restano il rischio di rottura o di lussazione della protesi, la permanenza della cicatrice.

Quali pazienti possono effettuare la chirurgia protesica dell’anca?

Il paziente candidato alla chirurgica protesica viene attentamente selezionato in base ad alcuni specifici parametri: entità del fenomeno degenerativo, età, impatto sulla qualità della vita, condizioni di salute.

Le protesi di rivestimento della testa femorale vengono preferite in pazienti giovani, specie se di sesso maschile, non affetti da allergie e in assenza di necrosi della testa femorale o deformità articolari (morbo di Perthes, epifisiolisi, esiti traumatici dell’anca, conflitto femoro-acetabolare, displasia dell’anca, difetti di antiversione dell’acetabolo o di torsione del collo femorale).

Nel caso di trattamenti chirurgici con tecnica mini-invasiva il paziente selezionato non deve essere in sovrappeso, non deve avere masse muscolari non eccessivamente sviluppate, non deve aver avuto episodi recenti di trombosi venosa profonda, non deve avere scompensi cardiocircolatori.

La chirurgia protesica dell’anca è dolorosa o pericolosa?

L’intervento viene praticato normalmente in anestesia epidurale. Il paziente non avverte dolore durante l’intervento. Fatta eccezione per le prime fasi del decorso postoperatorio in cui la ferita chirurgica unita agli effetti dell’anestesia può procurare dolore e malessere al paziente, il dolore tende a scomparire già nei primi giorni. La permanenza del dolore all’anca è un’ipotesi rara.

I rischi legati all’intervento chirurgico includono: infezioni, trombosi venosa profonda, emorragia, osteonecrosi, danni vascolari e neurologici, i rischi collegati all’anestesia.

Con l’utilizzo delle tecniche mini-invasive si esegue sempre il posizionamento di una protesi completa di tipo tradizionale riducendo al minimo il trauma chirurgico, con una minor durata del ricovero e tempi di recupero più rapidi.

Sono previste norme di preparazione?

È importante, prima dell’intervento, continuare a svolgere un’attività fisica costante compatibile con il dolore. Circa un mese prima dell’intervento vengono eseguiti tutti gli accertamenti preliminari. In alcuni casi selezionati dall’anestesista si procede con il predeposito del sangue, vale a dire con il prelievo in diversi momenti del sangue del paziente per riutilizzarlo durante l’operazione.

Una settimana prima dell’intervento viene chiesto di sospendere alcuni farmaci che impediscono la normale coagulazione del sangue come l’aspirina. In vista dell’operazione è necessario munirsi di vestiti comodi, ad esempio una tuta, calzature con la suola di gomma e tacco basso, e di stampelle.

Il giorno dell’intervento bisogna essere a digiuno dalla mezzanotte precedente.

Dopo l’intervento sono necessarie calze elastiche antitrombo.

Follow up

È necessario seguire la profilassi antitrombotica con Eparina per 30-40 giorni dopo l’intervento.

Prima dell’intervento il paziente viene istruito sugli esercizi per il recupero articolare e muscolare che verranno riproposti durante la fase di riabilitazione e che in un secondo momento il paziente potrà eseguire da solo anche a casa.

La rimozione dei punti viene solitamente eseguita dopo due settimane. Al paziente viene indicata la data del primo controllo e successivamente dovrà eseguire una radiografia e una visita ortopedica ogni 1 o 2 anni per verificare la funzionalità dell’articolazione e l’integrità della protesi.

 

Impianto protesi dell’anca

Impianto protesi dell’anca

 

Prima dell’intervento viene valutata la radiografia e programmata la pianificazione preoperatoria. E’ in questa fase che il chirurgo sceglie definitivamente la protesi.

L’intervento viene praticato normalmente in anestesia peridurale, ma in relazione al caso è facoltà dell’anestesista la scelta della soluzione migliore. La tecnica chirurgica si avvale anche dell’approccio mini-invasivo, con tagli cutanei piccoli e massimo rispetto dei muscoli.

La via di accesso all’anca è la postero-laterale che ha il vantaggio di risparmiare gli abduttori dell’anca (muscoli piccolo e medio gluteo), ma in alcuni casi particolari il chirurgo si avvale di altre vie di accesso.

L’intervento è seguito da una breve degenza in ospedale (in media 10 giorni): durante i primi due giorni di riposo a letto in posizione supina con cuscino divaricatore fra le gambe, vengono eseguiti esercizi di mobilizzazione passiva ed attiva. In caso di necessità il paziente può stare in posizione eretta più precocemente (1 giorno). È importante nella fase postoperatoria un relativo “isolamento” del paziente per evitare infezioni; ciò vuol dire visite rare e programmate dei parenti.

Onde d’urto

Onde d’urto

 

Le onde d’urto focali, introdotte in medicina agli inizi degli anni novanta per la cura dei calcoli renali (litotripsia urologica), da più di un decennio vengono impiegate anche per curare molte patologie dell’apparato muscolo scheletrico (tendini ed ossa principalmente).

Metodica non invasiva, le onde d’urto sono in molti casi una valida opzione terapeutica per la cura di molte patologie (anche in fase acuta) grazie alle sue proprietà benefiche di tipo antinfiammatorio, antidolorifico ed “anti-edema” (cioè per contrastare il “gonfiore”), nonché per stimolare la riparazione tissutale. In tempi più recenti, infatti, si sono mostrate efficaci anche nell’ambito della rigenerazione cutanea, accelerando il processo di guarigione di piaghe, ulcere e ferite “difficili” di varia origine, anche post-traumatica.

Che cosa sono le onde d’urto?

Le onde d’urto sono onde acustiche (impulsi sonori di natura meccanica), prodotte da appositi generatori (i litotritori), ed in grado poi di propagarsi nei tessuti in sequenza rapida e ripetuta.

Sono caratterizzate da una particolare forma d’onda (prima fase di pressione positiva, seguita da una altrettanto rapida fase, meno ampia, di pressione negativa), che le differenzia dagli ultrasuoni e che, nel suo complesso, è responsabile degli effetti biologici positivi applicabili in campo terapeutico.

A livello microscopico, la stimolazione con le onde d’urto è paragonabile ad una sorta di “micro-idromassaggio” profondo sui tessuti e sulle cellule in grado di indurre queste ultime a reagire positivamente, con produzione di sostanze ad azione antinfiammatoria e di fattori di crescita che stimolano la rigenerazione dei tessuti stessi, a partire dalle cellule staminali.

Questo tipo di stimolazione meccanica può in molti casi essere applicata con successo (in associazione con altre terapie codificate) anche per la riduzione dell’ipertono muscolare in condizioni di spasticità di diversa origine, sia degli arti inferiori che superiori, seppur con meccanismo d’azione parzialmente ancora ignoto.

Grazie a questi effetti biologici di base da più di un decennio l’uso delle onde d’urto si è ampiamente diffuso, dal campo urologico all’ambito ortopedico, fisiatrico e riabilitativo, ma con sostanziali differenze legate al fatto che si agisce su tessuti viventi e non su concrezioni calcifiche non vitali (come invece i calcoli).

Ben tollerate, non invasive, ripetibili e di grande efficacia clinica, le onde d’urto focali, in taluni casi opportunamente selezionati, si dimostrano essere anche un’alternativa all’intervento chirurgico, oppure una soluzione per la cura dei postumi di un trauma o di un intervento chirurgico stesso.

Inoltre:

-le onde d’urto focali possono agire in modo sinergico (cioè di rinforzo) con altre terapie, o anche di potenziamento ed accelerazione dei risultati attesi da un intervento chirurgico;

-il trattamento con onde d’urto eseguito in prima istanza non preclude la possibilità di poter poi intervenire con altre soluzioni terapeutiche (ad esempio chirurgiche).

 

Le modalità di esecuzione della terapia con onde d’urto sono differenti a seconda che si tratti di patologie ossee, patologie tendinee e muscolari, spasticità o patologie cutanee.

La durata di ogni seduta può variare dai 10-15 minuti nel caso di applicazioni sui tessuti “molli” (tendini, muscoli e cute) a tempi maggiori (fino ad un’ora) per i trattamenti sull’osso.

Il paziente viene generalmente fatto accomodare in posizione supina sul lettino o seduta. Durante tutta la durata della terapia il paziente è sotto costante e diretto controllo medico, in modo da modificare il livello di energia anche in funzione della sensibilità del paziente.

 Le onde d’urto sono sicure ed efficaci

Il trattamento con onde d’urto focali è una metodica non invasiva, ambulatoriale, sicura e di comprovata efficacia. La terapia è pressoché priva di effetti collaterali di rilievo clinico e ben tollerata (se correttamente eseguita), oltre che ripetibile. I vantaggi che ne derivano per il paziente sono ormai internazionalmente riconosciuti e comprovati da circa 15 anni di esperienza nella pratica clinica quotidiana.

 Le tecnologie in Humanitas

L’Istituto Clinico Humanitas, centro di riferimento regionale e nazionale di alta specializzazione per il trattamento con onde d’urto focali, dispone di due litotritori di ultimissima generazione grazie ai quali è possibile eseguire tutti i tipi di trattamento attualmente contemplati dalle linee guida nazionali ed internazionali. I due litrotritori presenti a disposizione sono:

-il litotritore con generatore elettromagnetico (indicato per i trattamenti sia ad alta energia sull’osso, sia a più bassa energia, eseguiti sui “tessuti molli” e in particolare sui tendini)

-il litotritore con applicatore “defocalizzato” (indicato per il trattamento di tendini, muscoli, ulcere, “ferite difficili” e cicatrici chirurgiche dolorose).

 

Follow up

Il trattamento con onde d’urto focali può, in taluni casi, avere un effetto antidolorifico immediato, ma questo non costituisce la regola. In genere, i benefici si manifestano progressivamente con il passare delle settimane. Per poter correttamente valutare l’efficacia della terapia, è consigliabile un periodo di follow up di circa 2-3 mesi. In questo periodo saranno indicati l’astensione dall’attività sportiva ed il riposo.

Inoltre, nel caso di trattamenti eseguiti per problemi di consolidazione ossea (per esempio nelle pseudoartrosi), poiché è fondamentale la stabilità meccanica per la guarigione, potrà essere prescritto un tutore di immobilizzazione dell’arto, o l’uso di stampelle.

Il trattamento con onde d’urto focali si rivela efficace nella cura di molte patologie a carico delle ossa e dei tessuti “molli” (tendini, legamenti), grazie alle sue proprietà benefiche di tipo antinfiammatorio, antidolorifico ed “antiedema” (cioè per contrastare il “gonfiore”), nonché per stimolare la riparazione tissutale:

-trattamento con le onde d’urto contro le calcificazioni

-modulazione delle onde d’urto per le patologie infiammatorie in fase acuta (cioè di più recente insorgenza e già di per sé stesse molto dolorose)

-trattamento con onde d’urto per la rigenerazione dei tessuti (per la cura di ulcere cutanee di varia origine e patologie affini).

-trattamento con onde d’urto per la cura delle fratture.

Le onde d’urto sono dolorose o pericolose?

NO, se eseguite secondo i protocolli terapeutici codificati e con apparecchiature idonee sono generalmente ben tollerate. Soprattutto se si tratta di trattamenti per patologie dei tessuti “molli” (tendini e legamenti).

In alcuni casi, se il paziente dovesse avvertire un leggero fastidio, il medico può comunque dosare l’intensità dell’energia ed il numero di colpi applicati, per far sì che il trattamento venga meglio tollerato e sia comunque efficace. Inoltre, alcuni protocolli terapeutici prevedono un aumento progressivo dell’energia applicata, in modo da consentire al paziente di adattarsi senza troppa difficoltà.

Nel caso di trattamenti sull’osso, per cui si applicano energie maggiori e per una durata di tempo superiore, è possibile che il dolore risulti più intenso e che sia necessario ricorrere ad anestesia locale.

Trattandosi di terapia non invasiva, è sicura e pressoché priva di effetti collaterali di rilievo.

In genere, possono verificarsi dopo applicazione di alte energie:

-piccoli ematomi, petecchie ed ecchimosi superficiali e di breve durata;

-risveglio temporaneo della sintomatologia dolorosa. La riacutizzazione del dolore dopo trattamento con onde d’urto non deve essere interpretato come un evento avverso o negativo, ma come una possibile risposta positiva alla stimolazione meccanica sui tessuti.

Il trattamento con onde d’urto focali è una terapia definita “manu-medica”, ossia eseguita dal medico con specifica competenza in materia. Fondamentalmente, di criticità non ve ne sono: come tutti i trattamenti di tipo “biologico”, che implicano una risposta da parte dei tessuti, il risultato (soprattutto per la rigenerazione ossea ed, in minor misura, cutanea) non è immediato, ma si manifesta nel corso dei mesi che seguono alla fine del trattamento stesso.

Va tuttavia precisato che le onde d’urto non sostituiscono in tutti i casi la terapia chirurgica.

Le onde d’urto hanno controindicazioni?

Ad oggi vengono riconosciute le seguenti controindicazioni, distinte in assolute e relative.

Sono controindicazioni assolute:

-la presenza di strutture delicate e sensibili, come encefalo, midollo spinale e gonadi nel campo focale;

-la presenza di patologie tumorali e di tromboflebiti dove si dovrebbero applicare le onde d’urto;

-la gravidanza

-la presenza di organi cavi (es. polmone ed intestino) nel campo focale (nel passaggio infatti dell’onda sonora dal mezzo solido a quello gassoso si potrebbero verificare lesioni dei tessuti).

Sono considerate controindicazioni relative:

-la presenza di Pace Maker o elettrostimolatori di diversa origine (in particolare per i pazienti portatori di Pace Maker, si dovrà porre attenzione a quale tipo di generatore utilizzare);

-la vicinanza di cartilagini ancora in fase di accrescimento (in realtà ormai questa viene considerata più una precauzione che una vera controindicazione, poiché in numerosi studi sperimentali è stata dimostrata l’assenza di effetti lesivi)

-le malattie o le alterazioni della coagulazione del sangue (coagulopatie con tendenza al sanguinamento): in tali casi, il medico valuterà per ogni singolo paziente l’idoneità o meno al trattamento, ed eventualmente anche il tipo di strumentazione da utilizzare.

 

Risponde la Dott.ssa Cristina D’Agostino:

Le onde d’urto focali sono molto dolorose?

Le onde d’urto focali provocano ematomi anche cospicui?

Le onde d’urto focali sono ripetibili?

Le onde d’urto focali possono essere applicate nelle patologie in fase acuta?

Le onde d’urto focali sono indicate in tutte le patologie ortopediche?

Le onde d’urto focali sono radiazioni ionizzanti?

Le onde d’urto focali possono essere applicate solo in presenza di calcificazioni?

Esiste il rischio di lesione ad ossa, tendini, nervi o altre strutture anatomiche?

Le onde d’urto possono essere prescritte anche “a scopo preventivo”?

Le onde d’urto focali possono in alcuni casi essere considerate l’ultima soluzione prima dell’ intervento chirurgico?

L’effetto terapeutico delle onde d’urto e’ immediato?

E’ vero che le onde d’urto focali possono essere utilizzate anche per la rigenerazione dei tessuti cutanei?

 

Onde d’urto contro le calcificazioni

Onde d’urto contro le calcificazioni

 

La terapia con onde d’urto non viene applicata per “rompere o frantumare” le calcificazioni di tendini, legamenti ed articolazioni, ma per risolvere l’infiammazione e la degenerazione tissutale di cui la calcificazione può essere la conseguenza. In alcuni casi, dopo il trattamento con onde d’urto le calcificazioni possono scomparire, si tratta però di un fenomeno che può richiedere molti mesi e soprattutto si verifica non per frantumazione ma per azione biochimica di scioglimento, legata alla riattivazione della circolazione localmente a livello microscopico.

Il trattamento con onde d’urto in ambito muscolo-scheletrico può quindi essere eseguito indipendentemente dalla presenza o meno di calcificazioni. Ad oggi inoltre non vi sono dati ed esperienze scientifiche che supportino l’indicazione di eseguire onde d’urto, a scopo preventivo, in presenza di calcificazioni tendinee e in pazienti asintomatici (cioè che non lamentano dolore o fastidio).

Onde d’urto modulate per la cura di patologie infiammatorie in fase acuta

Onde d’urto modulate per la cura di patologie infiammatorie in fase acuta

 

Onde d’urto con energie molto basse e modulabili per piccoli incrementi ad ogni livello consentono di trattare anche le patologie infiammatorie in fase acuta (cioè di più recente insorgenza e già di per sé stesse molto dolorose). Questo grazie alla possibilità di utilizzare tecnologie avanzate e di ultimissima generazione.

Questo offre un indubbio vantaggio terapeutico per i pazienti: contrariamente a quanto si possa pensare, le patologie in fase acuta sono le più indicate per questo tipo di cura, poiché il paziente trae maggior giovamento ed in tempi più rapidi, con più veloce recupero e ripristino della funzione articolare.

 

Onde d’urto per la cura delle fratture

Onde d’urto per la cura delle fratture

 

Le onde d’urto a più alta energia sono in grado di riattivare i processi di guarigione dell’osso (osteogenesi riparativa) favorendo ed accelerando la guarigione delle fratture che stentano a saldarsi (pseudoartrosi e ritardi di consolidazione).

Questa metodica risulta estremamente efficace soprattutto per quei pazienti che non hanno ottenuto successo con altre terapie conservative (mediche, farmacologiche e/o fisioterapiche), o addirittura con l’intervento chirurgico.

L’evoluzione delle tecnologie ha permesso di disporre di macchinari (i litotritori) sempre più sofisticati, in grado di colpire l’area interessata in modo estremamente preciso. Questo consente di lavorare con estrema selettività anche su aree molto piccole ed in prossimità di strutture anatomiche importanti (quali vasi e nervi).

 

 

Onde d’urto per la rigenerazione dei tessuti

Onde d’urto per la rigenerazione dei tessuti

 

Mentre in alcuni casi le onde d’urto vengono utilizzate a scopo puramente “palliativo”, per via delle loro proprietà antidolorifiche, in altri casi le onde d’urto focali hanno un vero e proprio effetto “curativo” (guariscono cioè dall’infiammazione e/o rigenerano i tessuti).

Negli anni più recenti infatti, oltre a chiarirsi le modalità di azione antiinfiammatoria, è stata scoperta anche la capacità delle onde d’urto di promuovere la formazione di nuovi piccoli vasi sanguigni (neoangiogenesi), azione indispensabile per la rigenerazione dei tessuti, con possibilità di applicazione pratica nel trattamento delle ulcere cutanee di varia origine e patologie affini (es. ferite “difficili” e perdite di sostanza post-traumatiche).

Nel caso della rigenerazione tissutale, l’applicazione dell’onda d’urto serve ad innescare un processo curativo che si completerà nel corso delle settimane successive. Il risultato è simile a quello ottenuto con un intervento chirurgico, ma con l’indubbio vantaggio di ricevere un trattamento non invasivo.

Onde d’urto: litotritore con applicatore “defocalizzato”

Onde d’urto: litotritore con applicatore “defocalizzato”

 

Oltre alla cura con onde d’urto di tendini e muscoli, questo litotritore permette anche di trattare ulcere, “ferite difficili” e cicatrici chirurgiche dolorose.

È dotato di generatore elettroidraulico di ultima generazione, ed essendo di dimensioni contenute e manovrabile manualmente, consente di muoversi su regioni anatomiche anche ampie, adattandosi alle diverse superfici corporee e trattando eventualmente anche tutti i punti dolorosi, compresi anche i cosiddetti “trigger points”, ovvero punti di particolare concentrazione del dolore.

Inoltre, cambiando il tipo di applicatore (con emissione di onde d’urto defocalizzate), consente di eseguire i diversi tipi di trattamento per stimolare la rigenerazione dei tessuti cutanei (ulcere, “ferite difficili” e cicatrici dolorose).

 

Onde d’urto: litotritore con generatore elettromagnetico

Onde d’urto: litotritore con generatore elettromagnetico

 

Indicato per i trattamenti con onde d’urto sia ad alta energia sull’osso sia a più bassa energia, eseguiti sui “tessuti molli” e in particolare sui tendini, si tratta di un litotritore dotato di un sistema di puntamento di precisione, collegato ad un braccio articolato e movibile in parte automaticamente. Questo consente di puntare il bersaglio da trattare con estrema precisione (es. una pseudoartrosi), aumentando le probabilità di successo della terapia.

Il riconoscimento del “bersaglio” anatomico da trattare può essere eseguito sia tramite controllo ampliscopico (un breve “flash” radiografico), sia tramite controllo ecografico, praticato simultaneamente ed in linea con la direzione di emissione del “fronte” di onde d’urto.

Questo tipo di controllo ecografico, detto “in-line” (poiché il fascio ecografico degli ultrasuoni utile per riconoscere la regione anatomica da trattare è parallelo ed interno alla sorgente di produzione ed avanzamento delle onde d’urto stesse), consente all’operatore di visualizzare istante per istante, con precisione, la posizione di applicazione delle onde d’urto stesse.

 

Riabilitazione da rottura del legamento crociato anteriore

Riabilitazione da rottura del legamento crociato anteriore

 

Dopo la chirurgia di riparazione del legamento crociato anteriore, è essenziale seguire un programma di riabilitazione mirato per assicurare il migliore recupero funzionale del ginocchio. Il recupero articolare e muscolare deve essere impostato e controllato periodicamente dal chirurgo ortopedico che, a sua volta, si avvale dell’ausilio di un fisioterapista. La fase della riabilitazione è delicata perché il paziente deve eseguire una serie di esercizi per rinforzare la muscolatura e recuperare movimento e coordinazione, senza però provocare sovraccarichi che potrebbero allentare o rompere il neo-legamento.

Normalmente il programma riabilitativo dura tre – quattro mesi. Successivamente è consigliabile continuare un programma di esercizi per mantenere la tonicità muscolare e recuperare la coordinazione motoria.

La ripresa sportiva è consigliabile solo dopo il completo recupero articolare e muscolare e, di norma, non è consentita prima di sei mesi dopo l’intervento chirurgico.

Trattamento per il dito a scatto

Trattamento per il dito a scatto

 

Lo scopo del trattamento previsto per la tenosinovite stenosante è di eliminare lo scatto o il blocco del dito e di ripristinarne il normale movimento. Il gonfiore intorno al tendine flessore e alla sua guaina devono essere ridotti per consentire un migliore scorrimento nella puleggia. La somministrazione di antiinfiammatori e l’applicazione di tutori possono essere indicati per ridurre l’infiammazione del tendine. Il trattamento può anche includere il cambiamento delle attività manuali.

Se i trattamenti non chirurgici non migliorano i sintomi può essere indicato un intervento in day hospital. Lo scopo della chirurgia è di aprire la prima puleggia in modo che il tendine possa scorrere liberamente. Il movimento attivo del dito generalmente inizia subito dopo l’intervento e l’uso normale della mano può essere raggiunto in breve tempo.

Trattamento per l’artrosi del ginocchio

Trattamento per l’artrosi del ginocchio

 

A seconda del o dei versanti coinvolti dalla patologia, sono proponibili terapie chirurgiche differenti. Negli ultimi 15 anni sono state sviluppate delle protesi di ginocchio cosiddette monocompartimentali, che hanno lo scopo di rivestire solo il “settore” danneggiato. Si tratta di protesi di piccole dimensioni, dette anche mini-invasive perché impiantabili attraverso incisioni di pochi centimetri. In questo modo si limita anche la perdita di sangue durante l’intervento, riducendo la necessità di trasfusioni. Abitualmente i pazienti sono in grado di alzarsi e camminare, con l’aiuto di 2 stampelle, già il giorno successivo all’intervento. Dopo un breve periodo di riabilitazione, i pazienti sono in grado di riprendere le normali attività, per esempio guidare l’automobile e, poco dopo, anche di praticare sport a basso impatto (nuoto, bicicletta, golf). Nel caso invece in cui l’usura coinvolga più di un compartimento, si parla di artrosi bi- o tricompartimentale. In questi casi la terapia chirurgica richiede l’utilizzo di protesi articolari diverse per forma e dimensioni, le cosiddette protesi “totali”. Quando viene impiantata una protesi totale il recupero post- operatorio è lievemente più lento, ma la ripresa delle comuni attività quotidiane avviene comunque entro 45 giorni dall’intervento. In conclusione, negli ultimi tempi sono stati compiuti notevoli progressi nella comprensione e nel trattamento della patologia artrosica del ginocchio. Siamo ora in grado con terapie mediche, chirurgiche e riabilitative adeguate, di migliorare notevolmente la qualità della vita dei pazienti colpiti da questa patologia ed anche di svolgere una prevenzione nei casi diagnosticati precocemente.

Cardiopatia ischemica

Cardiopatia ischemica

 

La cardiopatia ischemica include tutte le condizioni in cui si verifica un insufficiente apporto di sangue e di ossigeno al muscolo cardiaco. La causa più frequente è l’aterosclerosi, caratterizzata dalla presenza di placche ad elevato contenuto di colesterolo (ateromi) nelle arterie coronarie, capaci di ostruire o ridurre il flusso di sangue. La cardiopatia ischemica presenta manifestazioni cliniche differenti quali l’angina pectoris (stabile e instabile) e l’infarto del miocardio.

 

Che cos’è la cardiopatia ischemica?

L’attività del cuore è caratterizzata da un equilibrio tra il fabbisogno di ossigeno del muscolo cardiaco e il flusso di sangue. Il cuore, infatti, è un organo che utilizza grandi quantità di ossigeno per il proprio metabolismo. In presenza di patologie o condizioni che alterano questo equilibrio si può generare una riduzione acuta o cronica, permanente o transitoria, dell’apporto di ossigeno (ipossia o anossia) e degli altri nutrienti, che può a sua volta danneggiare il muscolo cardiaco, riducendone la funzionalità (insufficienza cardiaca). L’ostruzione improvvisa delle coronarie può condurre all’infarto miocardico con un elevato rischio di arresto circolatorio e decesso. Va ricordato che la patologia aterosclerotica e la cardiopatia ischemica sono la principale causa di morte nel mondo Occidentale.

 

Quali sono le cause della cardiopatia ischemica?

Si distinguono cause di cardiopatia ischemica e fattori predisponenti, meglio noti come fattori di rischio cardiovascolare.

Le cause più frequenti di cardiopatia ischemica sono:

aterosclerosi, malattia che coinvolge le pareti dei vasi sanguigni attraverso la formazione di placche a contenuto lipidico o fibroso, che evolvono verso la progressiva riduzione del lume o verso l’ulcerazione e la formazione brusca di un coagulo sovrastante il punto di lesione. L’aterosclerosi delle arterie coronarie è la causa più frequente di angina e infarto miocardico.

spasmi coronarici, una condizione relativamente poco frequente che porta a una contrazione (spasmo) improvvisa e temporanea dei muscoli della parete dell’arteria, con riduzione o ostruzione del flusso di sangue.

I fattori di rischio cardiovascolare sono:

ipercolesterolemia o aumento dei livelli di colesterolo nel sangue, che innalza proporzionalmente il rischio di aterosclerosi.

-ipertensione arteriosa: la “pressione alta” o ipertensione arteriosa può avere varie cause e interessa una larga fetta della popolazione di età superiore ai 50 anni. Si associa a una aumentata probabilità di sviluppare l’aterosclerosi e le sue complicanze.

diabete, che unita a ipertensione e ipercolesterolemia compone la sindrome metabolica, un quadro ad alto rischio di ischemia cardiaca.

-stress

-vita sedentaria

-obesità

-fumo

-predisposizione genetica

 

Quali sono i sintomi della cardiopatia ischemica?

-dolore toracico (angina pectoris o dolore anginoso), con pressione e dolore al petto, che può irradiarsi al collo e alla mascella. Può manifestarsi anche al braccio sinistro oppure alla bocca dello stomaco, confondendosi talvolta con sintomi analoghi a una banale pesantezza addominale.

-sudorazione

-mancanza di respiro

-svenimento

-nausea e vomito

 

Come prevenire la cardiopatia ischemica?

La prevenzione è l’arma più importante contro la cardiopatia ischemica. Si basa su uno stile di vita salutare, lo stesso che deve essere seguito da chi è stato colpito da problemi cardiaci. Prima di tutto è necessario evitare il fumo e seguire una dieta povera di grassi e ricca di frutta, verdura e cereali integrali. Bisognerebbe limitare o minimizzare le occasioni di stress psicofisico e privilegiare un’attività fisica aerobica regolare. Vanno poi corretti, ove possibile, tutti i fattori di rischio cardiovascolare.

Diagnosi

La diagnosi di cardiopatia ischemica richiede esami strumentali che includono:

-elettrocardiogramma (ECG): registra l’attività elettrica del cuore e consente di individuare la presenza di anomalie suggestive per ischemia miocardica. L’Holter è il monitoraggio prolungato nelle 24 ore dell’ECG: nel caso di sospetta angina consente di registrare l’elettrocardiogramma nella vita di tutti i giorni e soprattutto in quei contesti in cui il paziente riferisce di avere la sintomatologia.

-il test da sforzo: l’esame consiste nella registrazione di un elettrocardiogramma mentre il paziente compie un esercizio fisico, generalmente camminando su un tapis roulant o pedalando su una cyclette. Il test viene condotto secondo protocolli predefiniti, volti a valutare al meglio la riserva funzionale del circolo coronarico. Viene interrotto alla comparsa di sintomi, alterazioni ECG o pressione elevata o una volta raggiunta l’attività massimale per quel paziente in assenza di segni e sintomi indicativi di ischemia.

-scintigrafia miocardica: è una metodica utilizzata per valutare l’ischemia da sforzo in pazienti il cui solo elettrocardiogramma non sarebbe adeguatamente interpretabile. Anche in questo caso Il paziente può eseguire l’esame con cyclette o tapis roulant. Al monitoraggio elettrocardiografico viene affiancata la somministrazione endovenosa di un tracciante radioattivo che si localizza nel tessuto cardiaco se l’afflusso di sangue al cuore è regolare. Il tracciante radioattivo emana un segnale che può essere rilevato da un’apposita apparecchiatura, la Gamma-camera. Somministrando il radiotracciante in condizioni di riposo e all’apice dell’attività si valuta l’eventuale comparsa di mancanza di segnale in quest’ultima condizione, segno che il paziente manifesta un’ischemia da sforzo. L’esame consente non solo di diagnosticare la presenza di ischemia ma anche di fornire un’informazione più accurata sulla sua sede e sull’estensione. Lo stesso esame può essere effettuato producendo l’ipotetica ischemia con un farmaco ad hoc e non con l’esercizio fisico vero e proprio.

-ecocardiogramma: è un test di immagine che visualizza le strutture del cuore e il funzionamento delle sue parti mobili. L’apparecchio dispensa un fascio di ultrasuoni al torace, attraverso una sonda appoggiata sulla sua superficie, e rielabora gli ultrasuoni riflessi che tornano alla stessa sonda dopo aver interagito in modo diverso con le varie componenti della struttura cardiaca (miocardio, valvole, cavità). Le immagini in tempo reale possono essere raccolte anche durante l’esecuzione di un test da sforzo, fornendo in quel caso informazioni preziose sulla capacità del cuore di contrarsi correttamente in corso di attività fisica. Analogamente alla scintigrafia anche l’ecocardiogramma può essere registrato dopo aver somministrato al paziente un farmaco che può scatenare un’eventuale ischemia (ECO-stress), permettendone la diagnosi e la valutazione di estensione e sede.

-coronografia o angiografia coronarica: è l’esame che consente di visualizzare le coronarie attraverso l’iniezione di mezzo di contrasto radiopaco al loro interno. L’esame viene effettuato in un’apposita sala radiologica, nella quale sono rispettate tutte le misure di sterilità necessarie. L’iniezione del contrasto nelle coronarie presuppone il cateterismo selettivo di un’arteria e l’avanzamento di un catetere fino all’origine dei vasi esplorati.

-TAC cuore o tomografia computerizzata (TC): è un esame diagnostico per immagini atto a  valutare la presenza di calcificazioni dovute a placche aterosclerotiche nei vasi coronarici, indicatore indiretto di un rischio elevato di patologia coronarica maggiore. Con gli apparecchi attuali, somministrando anche mezzo di contrasto per via endovenosa, e’ possibile ricostruire il lume coronarico e ottenere informazioni su eventuali restringimenti critici.

-risonanza Magnetica Nucleare (RMN): produce immagini dettagliate della struttura del cuore e dei vasi sanguigni attraverso la registrazione di un segnale emesso dalle cellule sottoposte ad un intenso campo magnetico. Permette di valutare la morfologia delle strutture del cuore, la funzione cardiaca ed eventuali alterazioni del movimento di parete secondarie a ischemia indotta farmacologicamente (RMN cardiaca da stress).

 

Trattamenti

Il trattamento della cardiopatia ischemica è finalizzato a ripristinare il flusso di sangue diretto al muscolo cardiaco. Ciò si può ottenere con farmaci specifici oppure con un intervento di rivascolarizzazione coronarica.

Il trattamento farmacologico deve essere proposto dal cardiologo in collaborazione con il medico curante e può prevedere, a seconda del profilo di rischio del paziente o della gravità dei segni clinici:

-nitrati (nitroglicerina): è una categoria di farmaci adoperata per favorire la vasodilatazione delle coronarie, permettendo così un aumento del flusso di sangue verso il cuore.

-aspirina: studi scientifici hanno appurato che l’aspirina riduce la probabilità di infarto. L’azione antiaggregante di questo farmaco previene infatti la formazione di trombi. La stessa azione viene svolta anche da altri farmaci antipiastrinici (ticlopidina, clopidogrel, prasugrel e ticagrelor), che possono essere somministrati in alternativa o in associazione all’aspirina stessa, secondo le diverse condizioni cliniche.

-beta-bloccanti: rallentano il battito cardiaco e abbassano la pressione sanguigna contribuendo in questo modo a ridurre il lavoro del cuore e quindi anche del suo fabbisogno di ossigeno.

-atatine: farmaci per il controllo del colesterolo che ne limitano la produzione e l’accumulo sulle pareti delle arterie, rallentando lo sviluppo o la progressione dell’aterosclerosi.

-calcio-antagonisti: hanno un’azione di vasodilatazione sulle coronarie che consente di aumentare il flusso di sangue verso il cuore.

In presenza di alcune forme di cardiopatia ischemica può rendersi necessaria la soluzione interventistica, che include diverse opzioni:

-angioplastica coronarica percutanea, un intervento che prevede l’inserimento nel lume della coronaria, in corso di angiografia, di un piccolo pallone solitamente associato ad una struttura metallica a maglie (stent), che viene gonfiato ed espanso in corrispondenza del restringimento dell’arteria. Questa procedura migliora il flusso di sangue a valle, riducendo o eliminando i sintomi e l’ischemia.

-bypass coronarico, un intervento chirurgico che prevede il confezionamento di condotti vascolari (di origine venosa o arteriosa) in grado di “bypassare” il punto di restringimento delle coronarie, facendo pertanto comunicare direttamente la porzione a monte con quella a valle della stenosi. L’intervento viene effettuato con diverse tecniche operatorie, con il paziente in anestesia generale e in molte circostanze con il supporto della circolazione extra-corporea.

 

Infarto del miocardio

Infarto del miocardio

 

L’infarto è la necrosi di un tessuto o di un organo che non ricevono un adeguato apporto di sangue e ossigeno dalla circolazione arteriosa. Con il termine di infarto miocardico si intende la necrosi di una parte del muscolo cardiaco a seguito dell’ostruzione di una delle coronarie, arterie deputate alla sua irrorazione.

 

Come si manifesta?

L’infarto miocardico si può manifestare a riposo, dopo un’emozione intensa, durante uno sforzo fisico rilevante o quando lo sforzo è già terminato. Il suo esordio clinico è brusco ed è in prevalenza caratterizzato da sintomi tipici, che sono quindi facilmente identificabili nella maggior parte dei casi. E’ una malattia associata ad elevata mortalità se non adeguatamente trattata, che richiede l’attivazione del sistema di soccorso urgente sul territorio (118 o 112) e l’arrivo del paziente presso un ospedale dotato di tutte le potenzialità di trattamento della malattia, nel più breve tempo possibile. Le complicanze dell’infarto in fase acuta possono essere:

-lo shock, con grave prostrazione del paziente, bassa pressione arteriosa, tachicardia ed estremità fredde e umide a causa della vasta estensione dell’area di necrosi

-l’edema polmonare acuto, con grave mancanza di respiro a riposo

-le aritmie, alcune delle quali potenzialmente fatali

-l’ischemia di altri organi, per la scarsa capacità del cuore di svolgere la propria azione di pompa vitale per la circolazione del sangue.

 

Quali sono le cause dell’infarto del miocardio?

L’infarto miocardico è prodotto dall’occlusione parziale o totale di un’arteria coronarica. Questo avviene per la formazione di un coagulo (o trombo) su una delle lesioni aterosclerotiche che possono essere presenti sulla parete vascolare e che sono a stretto contatto con il lume interno. Non è ad oggi nota ne’ la causa dell’aterosclerosi ne’ della formazione improvvisa di un coagulo sulla placca coronarica: sono state avanzate diverse ipotesi tra le quali l’infiammazione dei vasi di varia natura e l’infezione da parte di germi molto diffusi nei paesi occidentali.

In rari casi l’infarto è la conseguenza di una malformazione coronarica (con restringimento del lume e formazione comunque di un trombo) o dello scollamento tra i foglietti della parete coronarica (dissezione) che porta quello interno a sporgere nel lume restringendolo in modo rilevante e predisponendolo alla chiusura totale (anche in questo caso per trombo o per compressione meccanica). Sono state descritte negli ultimi anni forme di infarto cardiaco che si manifestano in assenza di malattia coronarica e con un interessamento prevalente dell’apice del cuore.

La sindrome di Takotsubo è un infarto miocardico dell’apice che esordisce dopo un intenso stress emotivo e che colpisce prevalentemente le donne. E’ caratterizzata da una fase iniziale in cui la porzione di muscolo cardiaco che non si contrae può essere abbastanza estesa, coinvolgendo l’apice e i segmenti intermedi, con tendenziale buon recupero della contrattilità a distanza. Le coronarie sono indenni da restringimenti o da occlusioni. Il cuore, osservato all’ecocardiogramma, tende ad assumere un aspetto che ricorda il cestello utilizzato dai pescatori in Giappone, da cui il nome della sindrome che è stato proposto dai ricercatori giapponesi che l’hanno descritta per primi.

L’infarto resta anche oggi una malattia mortale. La mortalità è tanto maggiore quanto più tardivo è l’accesso del paziente con infarto miocardico acuto ad un ospedale nel quale possa essere trattato adeguatamente. E’ opportuno ricorrere al 118 in tutti i casi in cui si sospetti la presenza di un infarto cardiaco per iniziare al più presto il monitoraggio del paziente, trattare tempestivamente le complicanze fatali che possono verificarsi nelle prime ore (aritmie gravi come la fibrillazione ventricolare) e cominciare a somministrare i primi farmaci efficaci sul coagulo o trombo coronarico.

Quali sono i sintomi?

I sintomi più frequenti sono il dolore al petto, la sudorazione fredda profusa, uno stato di malessere profondo, la nausea e il vomito. Il dolore, definito anche precordiale (prossimo alla sede intratoracica del cuore) o retrosternale (il paziente lo attribuisce allo spazio toracico che sta dietro allo sterno) si può irradiare ai vasi del collo e alla gola, alla mandibola (soprattutto ramo sinistro), alla porzione di colonna vertebrale che sta fra le due scapole, agli arti superiori (il sinistro e’ coinvolto più spesso del destro) e allo stomaco.

Spesso il dolore al petto compare per brevi intervalli temporali e si risolve spontaneamente, prima di manifestarsi in modo più duraturo, con il corollario dei sintomi già descritto. Quando il dolore al petto, spontaneo o da sforzo, si manifesta per una durata massima di 30 minuti si parla di angina pectoris: una condizione di ischemia del cuore che non arriva ad essere così prolungata da provocare necrosi. Ci sono pazienti che lamentano l’angina pectoris da ore o giorni a mesi o anni prima di un vero e proprio infarto.

L’infarto miocardico è un’esperienza soggettiva: non tutte le persone che ne sono colpite descrivono la presenza degli stessi sintomi. Normalmente, un episodio acuto dura circa 30-40 minuti, ma l’intensità dei sintomi stessi può variare notevolmente. In alcuni casi il paziente riferisce di avvertire una sensazione di morte imminente, che lo porta a cercare il soccorso medico. Possono essere riportati anche stordimento e vertigini, mancanza di respiro in assenza di dolore toracico (soprattutto nei pazienti diabetici), svenimento con perdita di coscienza

Molte persone confondono l’infarto miocardico con l’arresto cardiaco. Sebbene l’infarto del miocardio possa causare l’arresto cardiaco, non ne è l’unica causa ed un infarto miocardico non determina necessariamente l’arresto cardiaco.

 

 

Quali sono i fattori di rischio?

I fattori di rischio per l’aterosclerosi e l’infarto sono distinti in fattori modificabili e fattori non modificabili.

Fattori non modificabili:

-età: il rischio di infarto, come per quasi tutte le patologie cardiovascolari, aumenta con l’avanzare dell’età.

-sesso: l’aterosclerosi e l’infarto sono più comuni negli uomini rispetto alle donne per le decadi dell’età’ giovanile e matura. Dopo la menopausa femminile il rischio di aterosclerosi e infarto e’ analogo negli uomini e nelle donne.

-familiarità: chi presenta nella propria storia familiare casi di malattia cardiovascolare acuta è maggiormente a rischio di infarto, soprattutto se la patologia cardiovascolare del congiunto si e’ manifestata in età giovanile

Fattori modificabili:

-stile di vita: sedentarietà e fumo di tabacco sono fra i più importanti fattori di rischio cardiovascolare. Smettere di fumare e condurre una vita attiva, facendo regolarmente almeno 20-30 minuti di attività fisica al giorno, è il metodo migliore per prevenire i problemi cardiovascolari e per tutelare la propria salute.

-alimentazione: Una dieta troppo ricca di calorie e grassi contribuisce ad aumentare il livello di colesterolo e di altri grassi (lipidi) nel sangue, rendendo molto più probabili l’aterosclerosi e l’infarto. Un’alimentazione sana ed equilibrata ha una grande valenza in termini di prevenzione delle malattie cardiovascolari.

-ipertensione arteriosa: la “pressione alta” o ipertensione arteriosa può avere varie cause e interessa una larga fetta della popolazione di età superiore ai 50 anni. Si associa ad una aumentata probabilità di sviluppare l’aterosclerosi e le sue complicanze, come l’infarto cardiaco o cerebrale. Condiziona un aumento del lavoro cardiaco che si traduce nel tempo con il progressivo malfunzionamento del cuore e con la comparsa di scompenso cardiocircolatorio

-diabete: l’eccesso di glucosio nel sangue danneggia le arterie e favorisce l’aterosclerosi, l’infarto miocardico e cerebrale e il danno di organi importanti come il rene, con la comparsa di insufficienza renale, a sua volta associata ad aumentato rischio cardiovascolare.

-droghe: l’uso di droghe può aumentare notevolmente la possibilità di infarto miocardico ed abbassare l’età media in cui si manifesta.

 

 

 

Diagnosi

L’infarto viene generalmente diagnosticato a partire dai sintomi riferiti dal paziente. Nel caso di sospetto infarto del miocardio, è possibile confermare l’ipotesi diagnostica mediante l’esecuzione di un elettrocardiogramma.

Attraverso gli esami del sangue, è possibile diagnosticare un infarto rilevando la presenza di alcune sostanze (gli enzimi cardiaci), che vengono rilasciate nel sangue dalle cellule del muscolo cardiaco che sono andate incontro a morte e permangono in circolo fino ad un paio di settimane dopo l’evento.

È possibile verificare la diagnosi di infarto del miocardio e valutare i danni causati dallo stesso attraverso un ecocardiogramma con Color Doppler. La malattia delle coronarie viene valutata mediante coronarografia con impiego del mezzo di contrasto. Dopo un infarto si può valutare indirettamente il grado di efficienza della circolazione coronarica e l’eventuale comparsa di ischemia mediante Elettrocardiogramma da sforzo, Ecocardiogramma da sforzo o da stress farmacologico, Scintigrafia miocardica da sforzo o da stress farmacologico e Risonanza Magnetica da stress farmacologico.

 

Trattamenti

Il primo obiettivo del trattamento dell’infarto miocardico, all’esordio della malattia, è quello di promuovere la riapertura della coronaria che si è occlusa. In questa fase il tempo risparmiato tra l’arrivo del paziente e la riapertura del vaso si traduce in un guadagno di muscolo cardiaco prima che venga danneggiato in modo irreversibile.

Il trattamento prevede la disostruzione del lume della coronaria mediante l’introduzione di un catetere dotato di palloncino gonfiabile all’apice, capace di passare attraverso il coagulo presente nel punto di massimo restringimento della coronaria stessa e di schiacciarne le componenti sulle pareti (angioplastica coronarica), e il posizionamento di una protesi a rete all’interno del vaso (stent) che contribuisce a mantenerlo aperto dopo la disostruzione.

In mancanza di angioplastica o della possibilità di raggiungere le coronarie con il catetere esistono anche farmaci che sono in grado di dissolvere il trombo dopo essere stati somministrati per via endovenosa (trombolitici) benché’ non utilizzabili in tutti i pazienti, in quanto associati alla possibilità di produrre emorragie anche gravi.

Altri farmaci, tra cui gli anticoagulanti, gli antiaggreganti, i betabloccanti, gli ACE inibitori e le statine, sono quasi sempre presenti nel corredo farmacologico del paziente colpito da infarto miocardico. Il loro uso va valutato in base al profilo di rischio emorragico del paziente, alla tolleranza individuale e alle controindicazioni che variano da soggetto a soggetto.

In tutti i casi in cui si sia rilevata una malattia coronarica grave o estesa e che non siano trattabili con l’angioplastica coronarica e lo stent si può ricorrere all’intervento di bypass coronarico che consiste nel creare chirurgicamente un canale di comunicazione fra l’aorta e la coronaria ristretta o ostruita a valle della lesione, mediante l’utilizzo di altre arterie (arteria mammaria interna) o vene (safena rimossa dagli arti inferiori). Normalmente, questo tipo di approccio non viene utilizzato in emergenza a meno che non vi sia assoluta necessità.

 

Prevenzione

La terapia prescritta alla dimissione prevede sempre l’Aspirina spesso associata ad un altro antiaggregante, che andrà mantenuto per un tempo variabile da un mese ad un anno, il betabloccante, l’ace-inibitore e la statina. Intolleranze individuali o la controindicazione assoluta ad uno di questi preparati può’ essere la causa della loro mancata prescrizione.

Questa terapia e’ spesso affiancata da altri preparati, secondo le caratteristiche individuali dei soggetti e le malattie associate. Lo scopo della terapia e’ quello di rallentare la progressione dell’aterosclerosi e di prevenire un secondo episodio infartuale, le sue temibili complicanze come la morte o l’ictus, e ridurre l’evoluzione verso un malfunzionamento del cuore e della circolazione (scompenso).

Ancora una volta la modificazione dello stile di vita può contribuire enormemente alla prevenzione.

Viene pertanto raccomandato di:

-ridurre il proprio peso corporeo fino al raggiungimento di un valore nella norma per età e sesso. La valutazione del peso corporeo viene fatta non solo in assoluto ma soprattutto come indice di massa corporea o BMI, unità di volume nella quale si tiene conto di peso e altezza, i cui valori normali sono stati condivisi dalla comunità scientifica internazionale.

-smettere di fumare, facendosi aiutare anche da centri specializzati ad assistere pazienti che non sono in grado di sostenere questa decisione da soli.

-praticare attività fisica regolarmente, con intensità variabile a seconda di età e condizioni generali di salute. È a questo proposito importante discutere con il proprio medico in merito ad un programma di allenamento adatto alle proprie caratteristiche.

-evitare cibi grassi, eccessivamente conditi o fritti. Non eccedere con alcool (un bicchiere di vino al pasto al giorno) e dolci. Privilegiare i grassi vegetali e i pasti a base di verdure, fibre, carni magre e pesce.

-limitare, per quanto possibile, le situazioni che possono essere fonte di stress, specialmente se queste tendono a protrarsi nel tempo.

 

 

Quali tecniche si usano per la riabilitazione?

Dopo un infarto miocardico può essere indicato un periodo di riabilitazione cardiologica. La stessa può essere fatta in regime di degenza o ambulatorialmente, secondo la gravità dell’infarto stesso, la capacità di recuperare la propria attività fisica da parte del paziente e le eventuali malattie extracardiache associate.

Le principali finalità della riabilitazione sono quelle di una graduale ripresa della capacità di esercizio individuale, di un assestamento della terapia che si avvicini il più possibile a quanto sarà assunto dal paziente nella vita extra-ospedaliera e, infine, di modificazione dello stile di vita.

Per le diverse modalità di esecuzione della riabilitazione e relativi programmi si rimanda alla sezione specifica.